È stato il figlio è l’opera prima di Daniele Ciprì, senza il suo storico compagno dai tempi di cinico tv, Franco Maresco.
Dopo lo “Zio di Brooklyn“, il discussissimo e blasfemo “Totò che visse due volte“, il palermitano specialista di fotografia si lancia ora nel suo primo film da solista, calcando un po’ meno la mano rispetto alle precedenti produzioni, ma non perdendo i tratti che lo hanno reso celebre.
Girato in Puglia, ma ambientato in Sicilia negli anni ’80, È stato il figlio racconta la terribile storia della famiglia Ciraulo, sotto forma di tragedia greca e avvolta in un clima grottesco in cui desolazione ambientale e umana sembrano essere una cosa sola.
Nicola (Tony Servillo) è il capo famiglia; lavora tutti i giorni ai cantieri navali per poter campare la moglie passiva, i suoi genitori e i due figli, Tancredi (Fabrizio Falco) e Serenella, in un piccolissimo e sovraffollato appartamento, presso i diroccati e apocalittici quartieri popolari di una non specificata area siciliana. La loro vita viene brutalmente interrotta quando un colpo di pistola vagante, proveniente da una resa dei conti mafiosa sotto il cortile di casa, colpisce accidentalmente la piccola Serenella, uccidendola.
La morte della figlia sembra distruggere tutto, fino a quando Nicola viene a sapere da un amico che lo Stato potrebbe risarcirli della perdita, attraverso una semplice “domandina”. Dopo le ovvie lungaggini burocratiche arrivano ben 220 milioni di lire che ai Ciraulo appaiono come una fortunata vincita alla lotteria; iniziano così un percorso di ostentazione del nuovo benessere facendosi mettere in credito ogni tipo di spesa quotidiana e acquistando una costossissima Mercedes ultimo tipo.
Daniele Ciprì, come ha sempre fatto, punta l’obbiettivo su personaggi ai margini di una società quasi completamente sprovvista di Stato e di una concreta civiltà, e se con i precedenti lavori aveva spogliato i suoi protagonisti di vestiti e moralità, trasformandoli in rivoltanti freaks esperti in peti e attività sessuali primordiali, qui calca un po’ meno la mano, adoperando pur sempre la cifra stilistica del grottesco, ma concedendosi ad un pubblico più vasto.
Per la prima volta dirige attori professionisti, scelti per un cast davvero indovinato; oltre a Servillo e a Fabrizio Falco (Tancredi), vincitore del Premio Mastroianni al Festival di Venezia, splendida l’interpretazione di Aurora Quattrocchi (la nonna Rosa) che negli ultimi minuti rende davvero agghiacciante un finale inaspettato e che difficilmente dimenticheremo.
Ciprì ci racconta la storia scritta da Roberto Alajmo, facendoci capire che di fatti del genere ce ne sono a bizzeffe, ma restano sconosciuti tanto dai media quanto dalle nostre orecchie.
Non è un caso che la vicenda venga narrata da un signore apparentemente estraneo ai fatti; una sorta di Forrest Gump dei poveri seduto sulla “panchina” di un ufficio postale, dove i vicini di fila non hanno nessuna intenzione di ascoltarlo e preferiscono addirittura farsi distrarre dall’insignificante incidente di un motorino, piuttosto che dall’enorme dramma umano simboleggiato dai Ciraulo.
L’unico signore che sembra prestargli attenzione si rivelerà sordo muto a tre quarti del film.
Non vogliamo capire cosa sta attorno a noi, e se lo vogliamo non possiamo.
È stato il figlio non è un film per tutti, graffia lo stomaco dove fa più male; lo stile e la mancanza di affetto di Ciprì nei confronti dei personaggi rende la visione non sempre coinvolgente, ma ci regala alcuni momenti memorabili e fin troppo rari nel nostro cinema recente. Basti pensare al primo viaggio in Mercedes di Nicola, in cui con un sorriso spiazzante guida su uno sfondo psichedelico di cannoli e fichi d’india, oppure allo scambio di persona del Signor Pino (l’usuraio); ma è soprattutto l’intenso finale che ci lascia di stucco e tira fuori in un attimo tutte le emozioni rimaste sopite durante l’opera.Vagamente ricordo una tale “botta emotiva” in un film italiano.
Tirando le conclusioni non si esce dalla sala urlando al capolavoloro e in molti saranno i detrattori che ne sconsiglieranno la visione, ma chi adora il cinema e spera che il nostro si svegli – e che non sia solo cinepanettoni e commediucole interpretate dai grandi fratelli – tirerà un sospiro di sollievo, sentendosi probabilmente come la sposa di Kill Bill nella Pussy Wagon. Qualcosa in questa paralisi cinematografica nostrana si è mossa, proprio come il suo ditone.
Bartolomeo Manzetti.