Ore 11:30, pieno giorno. Entro in un ipermercato per comprare la carta igienica e vengo travolto dalla solita scaletta musicale che le radio nazional popolari utilizzano per “allietare” le nostre vite quotidiane, da Valerio Scanu alla Amoroso, passando dal Liga al simpaticissimo (disco di platino) pulcino pio. Proprio mentre faccio la fila alla cassa, ecco che arriva Madness, il super singolo dell’ultima fatica dei Muse. Tanto basta per spiegare quale sia ormai il livello di successo raggiunto dai 3 inglesi nel giro di una decade. Un passaggio alla radio del supermercato è un dato ancora più esplicito dei concerti sold out a Wembley.
Il fatto che stiano lì in mezzo è probabilmente la cosa più positiva del disco, perché ti rendi conto che in mezzo a tutta quella “non musica”, a cui siamo sottoposti ogni giorno, finalmente si trova spazio anche per dei professionisti del settore e per una produzione impeccabile e al passo coi tempi. Da buon appassionato di musica provi piacere a sentire che nel resto del disco i Muse non si sono seduti sugli allori e hanno sperimentato come non mai (soprattutto nei momenti elettronici), senza dimenticare le incazzature chitarristiche degli esordi e la magniloquenza dei precedenti lavori. Il problema è che essere un’oasi nel deserto non basta per fare un buon disco.
Nel caso specifico The 2nd Law consiste in una serie di idee esasperate senza nessuna connessione tra loro, tanto nell’intero album che nei singoli brani. Ci trovi dentro cantanti lirici, momenti elettronici assassini e cavalcate armoniche apocalittiche, accostate a ballatine dance con melodie power-pop dal sapore ruffiano; rullate militari con tanto di trombe e cori da soldati feriti si alternano in pochi secondi a falsetti gioiosi con appeal da canzoncina anni ’80. Sembra che abbiano suonato il disco con i migliori strumenti al mondo, con le tecnologie più avveniristiche prese in prestito dalla Nasa e che poi abbiano assemblato il tutto con il “passa-paperino”.
La linea che separa la citazione dal plagio oscilla troppo spesso nella seconda direzione; basta un ascolto distratto per “acchiappare” le innumerevoli apparizioni di colleghi ben più celebri e puri. Il momento più drammatico in tal senso avviene in Animal. Dimenticando tutta la loro discografia, il pezzo meriterebbe applausi a scena aperta; parte forte, sessione ritmica precisa e coinvolgente, la voce entra perfetta e poi in un attimo tutto si disperde al giungere del ritornello.
Sembra che i Muse si siano detti: “Ok, abbiamo fatto un pezzo alla Queen, uno alla U2 e ho cantato come Prince. Adesso facciamone uno alle Muse!”, creando poi un pezzo dei Muse. Stesso schema, stessa ansiosa calma che dopo una rullata di batteria si trasforma in un riffone tutto semitoni, e soprattutto la progressione armonica di una melodia vocale che gli abbiamo sentito fare in almeno una dozzina di canzoni del loro repertorio.
Una strana involuzione quella di Bellamy che, invece di studiare prima gli altri per poi trovare il suo modo di cantare, fa l’esatto contrario, dimenticandosi di crescere ed evolversi, rimanendo intrappolato nella sua stessa melodia divenuta usata e stantìa.
La sensazione è che questi 3 ragazzi siano talmente dotati musicalmente che potrebbero fare i Queen, i Kyuss o qualunque altro gruppo, meglio di chiunque sulla terra, ma i Muse, quelli no, proprio non sanno farli.
“Fenomenali poteri cosmici – in un minuscolo spazio vitale”
Voto 3/10
Bartolomeo Manzetti