Anche quest’anno la città di Catania si appresta a vivere tutto ad un fiato le festività patronali in onore di S.Agata, una maratona di tre giorni (3-4-5 febbraio), apice in realtà di un periodo molto più esteso di attese, rituali e sentimenti di immemore passato che puntualmente ritornano nel capoluogo etneo ogni anno. Speranza, coraggio e forza sono le virtù che la tradizione agiografica attribuisce alla piccola santa, che poco più che quindicenne venne martirizzata sotto Decio imperatore (251) e Quinziano proconsole romano della Sicilia. Virtù che ancora oggi risuonano roboanti e insistenti nel presente, non più certo tra i ruderi di decumani antichi o tra editti persecutori, ma tra scatole elettriche che incutono altra forma di terrore. Anche all’inizio di questo incerto 2013 le tv ci ricordano come non mai infatti, attraverso molteplici sacerdoti di false promesse e illusioni di panna che bisognerà avere speranza, coraggio e forza per non vacillare, che il buio poi passerà, non si sa quando ma passerà e ognuno di questi ministri se ne farà supremo garante. Anche per Catania oggi è così, una città stremata proprio come dovette esserlo la santa sotto i più cruenti tormenti, ma una città il cui cuore non ha smesso ancora di battere, come quello di Agata che da circa millesettecentosessantadue anni pulsa ancora tra lo strato lavico spesso e l’eccitamento di un bambino che comprerà un palloncino sorridendo durante la sua festa.
Pulserà in eterno? Probabilmente pulserà fino a quando i figli di questa città e delle altre del mondo, avranno ancora la speranza, il coraggio e la forza di provare a credere nella vita, nel furore delle idee, nell’impeto dell’azione creativa, costruttiva e positiva. Questo ci ricorda, soprattutto quest’anno la festa di S.Agata, nella sua componente mitica e rituale. Una tradizione antichissima, da difendere e preservare dagli avvoltoi dei nostri tempi moderni: i burocrati del sapere ei tecnici di una logica finanziaria che non può e non deve sostituirsi a quella dell’umano spirito e del suo sentimento, ma soprattutto una tradizione da tutelare contro quella mentalità snob, un po’ chic della borghesia più pallida e di moraviana indifferenza, incapace di entusiasmarsi e di vedersi ancora protagonista all’interno del rito e della sua energia . E’ un dato di fatto ormai che questo denso tessuto di miti e di credenze religiose, divenuto pur humus fecondo nei secoli che furono nella nostra Italia e ancora di più nel nostro mezzogiorno, è stato protagonista di un progressivo e scellerato processo di distruzione già dal secondo dopoguerra che ha privato così la nostra terra di quella linfa vitale, alito di sogni e di grandezze che i nostri avi erano capaci di succhiare pur nelle difficoltà di ogni tempo.
Oggi la festa di S.Agata ci permette allora di interrogarci sul senso del mito e del rituale, ma senza cadere nell’ errore e nella tentazione di sviare tale riflessione, rispondendo con una più che legittima e ormai assodata rivendicazione delle proprie libertà e delle proprie appartenenze confessionali. La questione mira ad altro. La festa di S.Agata ci permette di interrogarci infatti anche al di là degli orizzonti e dei conflitti tra cristianità e ateismo, considerando una prospettiva diversa, quella dell’urgenza di un ritorno alla piena condivisione e partecipazione dei rituali che compongono la vita cittadina, sia quelli religiosi che quelli politici. Questa oggi è una delle sfide che le festività agatine ci portano a considerare. In un mondo sempre più sperduto e incapace di orientarsi alla luce di una pulsione perversa alla codificazione del tutto, del sapere analitico, dello svelamento di ogni mistero, può avere un nuovo senso aderire pienamente e con spirito convinto alle manifestazioni collettive come quelle di questi giorni? Può avere senso abbandonarsi finalmente alla condivisione di sorrisi, di colori popolari, a forme di vita che sono ben radicate nella storia della nostra città e di noi stessi? Potrà essere così per un altro momento di grande fermento cittadino come le prossime sessioni elettorali, vivendo pienamente e con sentimento anche in questo caso, le atmosfere della “cosa pubblica” , resistendo alla volontà di lasciar perdere tutto perché nulla ha più senso o comunque non merita più un senso?
Soprattutto la festa di S.Agata in questi ultimi anni ha dato l’opportunità a molti di soffermarsi giustamente sui diversi aspetti malsani delle cerimonie, creando un alone di indignazione generale verso i numerosi eccessi delle celebrazioni collegati anche ad infiltrazioni mafiose. C’è stato del marcio nella festa e probabilmente ancora oggi molti aspetti sono rimasti irrisolti e per questo ci si continua a mobilitare, si pensi per esempio alla nascita del Comitato per la legalità nella festa di S.Agata che si è battuto e si batte per ripulire le celebrazioni dai contorni più loschi. Eventi che però oltre ad alimentare in questi ultimi anni uno sdegno più che giustificato, potrebbero favorire l’espansione di una pericolosa indifferenza o di critica generalizzata a questa festa cittadina, presente già negli strati alti e salottieri della società urbana, frutto di uno snobismo elitario da isolare. Saldamente ancora oggi i numeri vertiginosi di questa festa la relegano al terzo posto nella classifica mondiale per partecipazione di fedeli, ma bisogna vigilare salvaguardando e alimentando il fuoco delle usanze centenarie. Bisogna impedire ai cultori del disfattismo e dell’appiattimento culturale di prendere il sopravvento all’interno di una festività che dal 2002 è considerata dall’UNESCO Patrimonio dell’umanità poiché Bene etno antropologico. In quanto tale le celebrazioni agatine vengono riconosciute come pregne di quel calore e di quella vitalità radicate nella storia dei popoli e in particolar modo di quello catanese, un furore che non deve scandalizzare ma sorprendere e sconvolgere positivamente. Questo è il senso di un’auspicabile cerimonia “pagana”, un ossimoro provocatorio che potrebbe far tremare ma che in realtà potrebbe bene indicare l’urgenza di difendere, nell’importanza in questo caso del dato confessionale che deve pur costituire il nucleo centrale ma non pregiudiziale, il rispetto di quelle forme di condivisione collettiva ereditate dal mondo così detto pagano dell’antica polis che anche la nostra religione nei suoi aspetti popolari e istituzionali conosce bene. È necessario difendere la dimensione civica fatta di spiritualità e forme di partecipazione collettiva sia in ambito religioso che politico, quella dimensione nominata spesso in maniera screditante “popolare” e che in realtà è l’eredità più nobile che la nostra terra possa ancora conservare dalle sue dominazioni, dalla bellezza del mondo greco, all’irruenza del mondo romano alla corporeità di quello arabo. Già Hegel nello scritto Religione popolare e cristianesimo, definiva popolare quella religiosità soggettiva e pubblica capace di esaltare la fantasia del soggetto nella comunità, nei suoi costumi e nelle sue istituzioni.
Sfera politica e sfera re religiosa, nelle loro eterne contese, devono dunque ritornare ad essere i polmoni della vita civile del nostro paese con i loro fondamentali simboli, con i loro linguaggi rinnovati nel presente ma anche con quell’aurea di solennità fatta di antica saggezza capace di innescare gli entusiasmi del popolo accendendo forme sempre più alte e profonde di convivenza civile. E in Italia non ci sono forme più alte profonde e colte di quelle del popolare, così come disperatamente Pasolini insieme per esempio ai cantautori impegnati, cercavano di far comprendere negli anni sessanta e settanta all’ombra ormai di un crepuscolo inesorabile, senza calore né poesia. Forme che bisogna custodire contro il dilagare di un materialismo omologante e patinoso, forme di uno spirito spontaneo e contadino e non industriale dal quale nasciamo, che non esiste più ma che continua a vivere attraverso queste tradizioni.
L’importanza di una celebrazione pagana come quella che si vive per la festa di S.Agata e che il mondo cristiano nei suoi secolari linguaggi ben conosce, è un tesoro da proteggere strenuamente, se per pagana proviamo ad intendere non certo una celebrazione effimera e idolatrica, ma una cerimonia nel quale convivono la pienezza dei rituali, nelle forme del popolo e in quelle istituzionali, capaci di autosuggestionarsi e di suggestionare sia nella parola sacra dell’officiante e anche nei gesti sacri (non solo religiosi) della comunità, chiamata a rispondere a proprio modo, nelle proprie libertà ad una rivelazione collettiva che salva dalla solitudine e dal più cinico individualismo urbano. Forse questa prospettiva potrebbe portare a leggere in maniera diversa ed eccentrica le numerose e sane “contraddizioni” delle festività agatine, potrebbe aiutare se non a capirle quanto meno a comprenderle. Forse che per esempio i devoti con il sacco e la sciarpa del Catania al collo sono gli eredi degli antichi guerrieri che nelle sfilate o nelle battaglie solevano indossare come talismani gli emblemi più rappresentativi delle proprie appartenenze? Forse che lo stupore di un bambino di fronte ad un cero o ad una banda sonante sia lo stesso di un bambino nell’Atene dei ditirambi dionisiaci? Forse che il pianto e le urla dei devoti che ci fanno a volte sorridere un po’ dall’imbarazzo sono pesanti eredità di gesti antichi e invasati come quelli del mondo greco di cui siamo figli? Certo siamo lontani ormai da queste antiche immagini, ma un’ardita lettura in questo senso suggerisce forse un brivido di verità. Non siamo i figli delle macchine e dello spread, ma di una cultura che fonda le sue radici in antichi scenari che si rinnovano nei tempi.
Se è difficile capire, un passo notevole sarebbe comprendere. Non certo le impurità smascherate dalla festa, non certo le infiltrazioni criminose da condannare ed isolare, non certo le arroganze, ma i gesti più spontanei e meno filtrati che sono le ricchezze più importanti che salvano dalla deriva dell’appiattimento.
Celebrazioni pagane dunque, nel senso ereditato dal mondo greco e romano. Celebrazioni che riguardano le diverse sfere della dimensione cittadina, capaci di attirare ed entusiasmare la popolazione, risollevandola dalla crisi che aliena e rende tutti più soli e tristi. Nell’essere consapevolmente popolo, nelle liturgie religiose e civili della città, ci si può sentire ancora di appartenere ad un qualcosa che anima e fa vibrare l’anima e l’intelletto.
Le urla del venditore di torroni, i cerei in festa con le canzoni napoletane, le “semenze” sputate in strada, il medico del quartiere che saluta i pazienti in strada e il volto di Agata panciuto e trionfante ad unire questo mosaico che non deve essere perduto. Forse i suoi occhi vedono soddisfatti, oltre tutto, in questa varietà incomprensibile, la speranza, la forza e il coraggio della città.
Daniele Giustolisi