Io non fumo, ma, mai più potrò guardare un accendino con gli stessi occhi di prima, dopo aver letto questa raccolta di racconti di Sandro Veronesi. “Che c’entra un accendino?” vi chiederete. In realtà non c’entra nulla. Ecco, lo sapevo, mi sto imbrogliando e vi sto confondendo. Il fatto è che un racconto s’intitola “Il ventre della macchina” e a questo punto penserete che si parli di una macchina, invece no, parla di un accendino, o meglio, viene usato un accendino per dimostrare quanto l’uomo sia incline all’infelicità più che alla felicità. Un’infelicità che non viene da fuori ma dalle nostre stesse mani. Come, a quello scintillio di divino che c’è in ognuno di noi, si sia immischiata quest’inclinazione, non è dato capire; così come non c’è spiegazione per la nostra attrazione verso ciò che è sbagliato, ciò che è generalmente indicato come il “male”, vedi “La furia dell’agnello”.
Veronesi, un racconto dopo l’altro, sembra mettere il dito nelle piaghe di ciascuno di noi, nelle nostre debolezze: la paura di perdere qualcuno che ci è caro, come in “Profezia”, il racconto più celebrato di questa raccolta, definito la cosa più bella scritta negli ultimi dieci anni; il timore di non riuscire ad uscire dall’ombra che qualcun’altro involontariamente ha gettato in maniera definitiva sulle nostre esistenze, come in “Un pesce rosso”; la debolezza che sembrano assumere le nostre vite, quando, ad un tratto, cominciano ad essere normali o il più vicino possibile a ciò che desideravamo come in “Sotto il sole ai Campi Elisi”; o quando il destino ci si mette di mezzo e allora ci assoggettiamo a lui come in “Elemosina per me stesso”.
Io non amo particolarmente i racconti, perché mi affeziono alle storie e ai personaggi e mi piace tenerli con me nella forma più lunga che è quella del romanzo. Quando, però, mi avvicino ad una raccolta di racconti, due sono le condizioni che devono verificarsi affinché mi decida a portarla a casa, innanzitutto devo già aver letto altri libri dello stesso autore e da quei libri devo essere stata catturata e posseduta, a lungo.
Con Veronesi, quindi, non potevo sbagliare e non ho titubato quando ho preso Baci scagliati altrove dallo scaffale in cui era riposto e con cura, per paura di sporcare il bianco della copertina, tenendolo come si tiene un vassoio, l’ho portato a casa e appoggiato sul mio comodino, il primo luogo in cui finiscono i miei libri.
Poi c’è “Sorella” il racconto che ho preferito. Sorella è la parola che più amo in assoluto, tutti possiamo essere fratelli, ma solo di alcuni riusciamo ad essere sorelle. Innanzitutto l’essere sorelle è una prerogativa delle donne, e quando una donna lo è o sceglie di esserlo, lo è per prima cosa nell’anima, perciò non ha importanza l’essere state partorite dalla stessa donna, basta sentirsi “sorella”. La caratteristica principale della raccolta è la capacità di Veronesi di riuscire a farci intuire il vero significato del racconto parlando di cose che sembra non c’entrino nulla, come nel caso dell’accendino.
La sua intenzione sembra quella di distrarci dalla verità per poi, improvvisamente, nelle ultime tre righe rivelarci l’errore in cui ci aveva indotto. Non so se l’autore sia consapevole o meno di questo, del resto, potrebbe anche darsi, che sia io ad essere semplicemente dura di comprendonio.
I luoghi dell’altrove mi sono familiari, perciò, niente di strano che mi trovi di fronte a questi baci scagliati, prima o poi.
P.S. non ho mai visto una donna indossare scarpe gialle col tacco! Vedi “la scarpa”.
Sandro Veronesi, Baci scagliati altrove, Fandango Libri.