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Recensione “Her-Lei” di Spike Jonze

Her PosterChi negli ultimi dieci anni, almeno una volta nella vita, non si è ritrovato a chattare “al buio”, con la virtualità del mezzo a proteggerlo da rischiosi coinvolgimenti in prima persona e la possibilità di manifestare all’interlocutore, con sole poche righe, il meglio di se stesso? E chi potrebbe negare che in quello “spazio” limitato dal “tempo” (scusate il gioco di parole) di una connessione, non si siano generate, alimentate e infine consumate aspettative emozionali di qualsiasi genere, dall’amicizia fino all’amore, passando, inevitabilmente, anche per il sesso? Inutile individuare responsabilità morali o sociali nei soli individui coinvolti. Questo terzo millennio, con la sua incontrollabile accelerazione tecnologica, ha riscritto inesorabilmente la mappa delle possibilità per ciascuno di noi, aprendo un varco fino a ieri insospettabile e rilevando il vuoto là dove si ipotizzava il “pieno” e, di contro, la vita dietro presunte assenze. Cambiate le modalità di declinazione dei rapporti non muta tuttavia l’intima sostanza degli stessi e, soprattutto, non cambia il dolore delle (umane) aspettative infrante. “Her-Lei” di Spike Jonze, fonda i postulati del suo discorso su questa incontestabile realtà, estremizzandoli ulteriormente, sia nella forma che nel contenuto, in un più ampio ragionamento sulla perdita dell’identità (sociale ed emotiva) nell’ormai avanzato Terzo Millennio. Già perché in questa storia di un uomo, sull’orlo del fallimento sentimentale a causa di un divorzio, innamorato perdutamente del suo sistema operativo OS (che lo “ricambia”), scorre in filigrana l’analisi di una società che ha smarrito soprattutto le sue coordinate emotive. Non a caso delega ad altri il compito di elaborare per iscritto i sentimenti (l’impiego del protagonista è quello di redigere lettere d’amore per affetti che non sono suoi) e trova, quale miglior conforto al vuoto, niente di meglio che l’amicizia con altri accattivanti e disponibili OS 1. In un crescendo che rende i corpi sempre meno indispensabili agli scopi (un po’ come accadeva nella società pigra e obesa del profetico “Wall-E”), sono le voci a dettare l’unica tabella di marcia delle emozioni e a modellare nuove (ma solo in apparenza) tipologie d’amore. E mentre fuori gli scenari futuristici, volutamente disancorati dall’idea di fantascienza classica, avvolgono di tonalità tenui e benevoli un’umanità fragile e ingenuamente tecnologica, dentro l’anima del depresso Theodor (un bravissimo Joaquin Phoenix) si compie il più classico degli itinerari amorosi, fatto di incontro (programmato) con l’”altro”, crescita (perché l’OS impara costantemente dall'esperienza) e infine tradimento ed abbandono, questi ultimi declinati nelle uniche modalità che un software in perenne evoluzione può offrire. Alla fine resta il dolore (questo sì più autentico) di un essere nuovamente spezzato in due ma, magari, anche fortificato dalla raggiunta consapevolezza della propria nevrosi. Perché, che sia libero o oppresso da tutte le  possibili sovrastrutture (lettere cartacee o virtuali, una chat-room o infine questo OS1), il cuore umano resterà sempre, splendidamente e prevedibilmente, uguale a se stesso.

 

 

Andrea Lupo   

  

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