Ci sono modi diversi per affrontare la visione del controverso “Noah” di Darren Aronofsky. C’è la maniera più semplice ed immediata, ovverosia quella di ascriverlo al filone dei cosiddetti film “biblici”, categoria che ha conosciuto il suo massimo fulgore produttivo tra gli anni ’50 e ’60 (Ben Hur, La Bibbia, I dieci comandamenti, etc.). C’è poi quella altrettanto semplice di intenderlo come moderno blockbuster fantasy, sapientemente infarcito di star, classica CGI e una “sorvegliata” spettacolarità a misura di adulto. Entrambi i modi di vedere rischiano però di scontentare quei potenziali destinatari della pellicola. Perché, e qui sta il terzo approccio, “Noah” è soprattutto un film di Darren Aronofsky, il suo progetto più ambizioso e visionario, quello che da sogno coccolato in modo indipendente (c’è perfino una personale graphic novel a monte) è divenuto “carne” (hollywoodiana) per tutte le masse. Un film indipendente che ibrida linguaggi provenienti da altri universi cinematografici e che rischia di pagare sulla propria pelle il prezzo di certi compromessi. Perché se di biblico c’è senz’altro l’impianto (La Genesi), del tutto personali e fortemente “laici” (per stessa ammissione del regista) risultano taluni innesti operati all’interno del mito. La scelta, per esempio, di inserire un personaggio come Ila, figlia adottiva e “sterile”di Noè (interpretata dalla “potteriana” Emma Watson), potrebbe apparire didascalica ma risulta anche perfettamente funzionale al pensiero “deterministico” del protagonista (che a un certo punto sfocia quasi nella deriva fondamentalista). Altrettanto “indipendente” risulta poi la scelta di strutturare il film intorno al lungo prologo e al successivo dramma che si sviluppa all’interno dell’arca, mentre l’inondazione (ad eccezione di una evocativa sequenza di morte con l’umanità aggrappata ad uno scoglio e le sue urla disperate da fuori) resta quasi fuori campo e non invade troppo la materia narrata (laddove in un “classico” film storico si sarebbe verificato l’esatto contrario). Ci sono libere digressioni fantasy magari poco felici e nate dal “vuoto” descrittivo dei Sacri Testi (i giganti citati nella Genesi qui diventano vigilanti di pietra più vicini ai Transformers che a creature di Ray Harryhousen), situazioni giovani(listiche) eccessivamente moderne (ma se il cast annovera Hermione e Percy Jackson certi “scivoloni” di sceneggiatura possono lecitamente attendersi) e un Matusalemme meno ieratico di quanto ci si aspetterebbe. Imperfezioni evitabili certo ma, per fortuna, non così terribili da offuscare la potenza dell’affresco complessivo. Che poi è quello che pulsa intorno a un personaggio magmatico e psicologicamente mai banale (cui Russel Crowe aderisce con totale fisicità) e che vive delle visioni sfrenate e contemporanee del suo regista. E se l’immaginario di Aronofsky si ravviva negli inserti onirici, in certi squarci da incubo o nel racconto della Creazione, tutti momenti in cui riecheggiano le visioni barocche di “The Fountain” (il film più vicino a “Noah” anche se molto più libero e indipendente di questo), la frenesia divorante del protagonista non può non richiamare alla memoria l’ansia autodistruttiva che investiva il suo wrestler Mickey Rourke o il cigno nero di Natalie Portman. Potrà piacere o meno (come tutti i film di Aronofsky del resto) e non è cinema esente da difetti, ma nessuno potrà affermare che in questo “Noah” l’autore sia stato soffocato dal blockbuster. O, per meglio dire, che vi sia “annegato” dentro.
Andrea Lupo