Per gli spettatori profani il nome di Wally Pfister non dirà certo granchè. Ma per gli addetti ai lavori e i cinefili documentati questo esordiente regista dal cognome poco pronunciabile rappresenta l’artefice di molti di quei miracoli visivi che portano la firma di Christopher Nolan. A lui si devono infatti le atmosfere magiche e rarefatte di “The Prestige”, i crepuscoli visivi (e psicologici) del "Cavaliere Oscuro" e soprattutto lo stratificato e mutevole subconscio di “Inception” (pellicola per la quale si è aggiudicato nel 2011 un meritatissimo premio Oscar). Un direttore della fotografia passato dietro la macchina da presa (come già altri colleghi prima di lui), a dimostrazione del fatto che per fare cinema talvolta non occorrono particolari studi registici, ma soltanto una lunga e necessaria gavetta tecnica in settori tanto collaterali quanto cruciali (sceneggiatura, montaggio,etc.). La “benedizione” dell’amico Nolan, però, qui si sente tutta e il film di certo non avrebbe potuto vantare un cast così nutrito (Johnny Depp, Morgan Freeman, Cillian Murphy, Paul Bettany e Rebecca Hall) se molte di queste star non avessero già "frequentato" il set di tanti capolavori del regista di “Memento”. A completare i credits del progetto vi è infine una sceneggiatura, firmata dall’esordiente Jack Plagen, ritenuta già tra le migliori del 2012. E allora com’è alla fine questo “Transcendence”, film sul quale gravano non poche aspettative critiche e soprattutto commerciali? Diciamo subito che non è il film che il grande pubblico si aspetta. E’molto di più certamente ma è anche (inevitabilmente) qualcosa che rischia di scontentare i “più”. Siamo nei territori della fantascienza più “spinta”, quella in cui, per potersi abbandonare allo spettacolo e al suo messaggio, bisogna innanzitutto accantonare le molte riserve legate agli audaci assunti tecnologici. Perché l’idea di base (l’intelligenza umana che si innesta in una struttura artificiale e finisce poi per “trascendere” la macchina stessa) non è che il mero pretesto per andare oltre una storia di cyber-intelligenze fuori controllo (sulla scia de “Il tagliaerbe” per intenderci). Qui si lambiscono infatti tematiche "pesanti" come l’etica applicata alla tecnologia (l’upload di un cervello morente in un hard disc, ipotesi non così remota) e le implicazioni sociologiche legate all’utilizzo dei sistemi operativi (l’interfacciarsi emotivo fra uomo e supporto non è già implicita conseguenza dell’attuale e fin troppo disinvolto utilizzo delle piattaforme social?). Ad arricchire il quadro vi è poi un’intelligenza artificiale non così “maligna” come si potrebbe credere (la nuova A.I. del defunto scienziato guarisce i mali e monitora il benessere dell’uomo) e il cui agire non è nemmeno tanto prevedibile (laddove invece i classici gruppi eversivi-motore dell'azione, qui agiscono in modo scontato e, come da copione, prevedibilmente terroristico). A un certo punto nella storia di questa intelligenza artificiale (o residuale) connessa in rete e che aspira alla "trascendenza", si tocca perfino la metafora “cristologica”, chiave di lettura da non sottovalutare troppo, specialmente per quell'insolito sottotesto critico che l'accompagna (le nanotecnologie guidate dallo scienziato guariscono dai mali dando luogo ad una nuova forma di proselitismo). Insomma c’è tantissima carne al fuoco in questo “Trascendence”. Così tanta da venire inevitabilmente travolta dalle ovvie esigenze di racconto. Ed è probabilmente per questa sua debolezza nel dominare totalmente la fitta materia (ma in realtà era la ricchissima sceneggiatura a dover essere arginata) che il Wally Pfister direttore della fotografia mostra i suoi limiti come regista. E così, se dal punto di vista visivo la resa cinematografica rimane sempre impeccabile (il film non è privo di interessanti suggestioni scenografiche), è sotto quello emotivo che l’insieme risulta piuttosto algido. Una freddezza che però per "Transcendence" rappresenta anche quello scotto necessario da pagare per non essere archiviato come un qualsiasi blockbuster vuoto e dimenticabile. Si esce pensando dal film, ragionando anche su quegli scenari bui tanto lontani quanto temibili. E questo, considerati i tempi, non è poco.
Andrea Lupo