Benvenuti al Grand Budapest Hotel, albergo immaginario nell’immaginaria Repubblica di Zubrowka di inizio Novecento. Ma benvenuti, soprattutto, nel nuovo, fantastico ottovolante cinematografico firmato Wes Anderson, cineasta che al suo ottavo lungometraggio conferma (ancora) di saper essere insieme autore, intrattenitore e perfino sottile letterato, e senza che nessuna delle molteplici “anime” prenda mai il sopravvento sull’altra. Perché in questo raffinato divertissement, per nulla privo di spessore, brillano davvero le migliori caratteristiche del regista de “I Tenenbaum” e “Moonrise Kingdom” e sono quelle di un autore capace di coniugare in modo sapiente e mai forzato una stilizzazione ormai riconoscibile (le atmosfere surreali e “cartoonesche” mutuate dall’animazione di “Fantastic Mr.Fox”) con l’amore per tematiche a lui particolarmente care (la paternità, naturale o acquisita, praticamente presente in tutti i suoi lavori). E tutto ciò senza perdere mai di vista la storia, si tratti di quella “piccola” del concierge Gustave H.(un meraviglioso Ralph Fiennes), protagonista di un giallo a rotta di collo sospeso fra omicidi, dipinti trafugati ed eredità familiari contese, o di quella “grande” di una Mitteleuropa già sull’orlo di imminenti fascismi (con la città ungherese che sembra uscita dritta da una carta decorativa ma che in realtà funge anche da fosco scenario per le vicende di personaggi umanissimi e meravigliosamente sopra le righe). Si parla di Storia con la “s” maiuscola perché in questa occasione (a differenza dei tipici contesti familiari amabilmente "disfunzionali") il regista ha scelto deliberatamente di rifarsi alle memorie di Stefan Zweig, letterato austriaco e fervente antinazista le cui opere, non a caso, furono date alle fiamme durante gli storici roghi di Berlino. E di riferimenti storici all’antinazionalismo qui non ne mancano certo, anche se vengono descritti con sequenze leggere (ma “pesanti” di senso), o magari affidati a figure sintomatiche come l’immigrato di guerra Zero, o in ultimo “esumati”(è il caso di dirlo) attraverso grotteschi nosferatu dalle poche parole e i molti fatti (il sublime zio-killer assetato di eredità qui interpretato da un Willem Dafoe che strizza l'occhio a se stesso e a L'ombra del vampiro). Se tali sono le suggestioni che permeano l’ispirazione del regista, allora l’intera pellicola può svelarsi agli occhi dello spettatore come qualcosa che va oltre uno spasso colto, surreale e leggero. Perché l’egida illustre di Zweig sotto la quale Grand Budapest Hotel è stato concepito, rende l’intera pellicola un sincero omaggio a tutta l’arte del narrare, qui evocata attraverso un incipit fatto di significative cornici concentriche (la bambina che legge il libro con il titolo del film, l’autore che racconta la storia e infine le memorie dell’anziano Zero, lobby-boy, protagonista di quella). Anderson colloca il suo punto di vista cinematografico come l’ultima e conclusiva di queste cornici narrative e si “diverte” (ma con altissimo senso di intelligenza) a reinventarlo continuamente, cambiando perfino gli stessi formati della visione (un susseguirsi di passaggi dal 4:3 al panoramico in funzione chiaramente espressiva ed “espressionistica”). Un'operazione che fa della composizione fra registri, stili e tematiche il suo armonioso punto di forza nonchè l'indispensabile punto di partenza da cui possono scaturire letture (critiche), ammirazione (cinefila) o più semplicemente un sano divertimento. Favola, racconto di formazione, rievocazione nostalgico/cinefila di tempi perduti e perfino pamphlet vigorosamente anzi-nazista; tutto questo è Grand Budapest Hotel, gioiello di stagione che nessuno spettatore attento dovrebbe lasciarsi sfuggire. Wes Anderson è il consierge che invita tutti a fare sosta nel suo albergo sezionato a mo’ di casa delle bambole, crocevia di piccole esistenze e grandi storie, (non)luogo in cui il cartone animato incontra la foto d’epoca e il dramma ha le tinte rosa della comicità e le sfumature gialle del noir. Qualsiasi spettatore è ben accetto. Non al prezzo di un costoso soggiorno, ma a quello più modico di un biglietto.
Andrea Lupo