Sono supereroi. Sono mutanti. Sono X- Men perché nella “X” risiede l’incognita dai cui originano quei superpoteri che li rendono unici e, al contempo, ibridi da temere e respingere. Costretti nell’ombra, votati all’emarginazione, ma al tempo stesso ricolmi di pietà per gli uomini. O magari soltanto di rabbia. Sono fra i più “sociali” e metaforici dei supereroi Marvel perché più di tutti, a differenza di personaggi notoriamente “isolati” come Spiderman o Hulk, loro la "maledizione" dei superpoteri la vivono come se appartenessero a un gruppo o a un'etnia, ed incarnando in maniera sottile tutte le declinazioni (e contraddizioni) della diversità umana (razziale, fisica e sessuale). E, in un certo senso, sono lo specchio deforme, colorato e devastante di quella umanità. Non è un caso che i mutanti, proprio per questa particolare "profondità", si siano meritati alcuni fra migliori adattamenti cinematografici dei comics (i primi due capitoli di Brian Singer e “X-Men- l’inizio” sono fra i Marvel più belli insieme agli Spiderman di Sam Raimi). Tornano oggi al cinema a ben tre anni dall’ultimo, notevole capitolo “vintage” (X-Men- L'inizio) che nel 2011 aveva contribuito anche a consacrare i talenti di Michael Fassbender, James McAvoy e Jennifer Lawrence. Tornano e, naturalmente, non deludono ma, anzi, finiscono per entusiasmare anche gli spettatori neofiti, nel frattempo cresciuti a pane e Wolverine. Al timone della regia lo stesso Brian Singer (L'allievo, Operazione Valchiria) che li portò al successo ben quattordici anni fa. E se la classe non è acqua, cari spettatori, qui allora si vede tutta; perché Singer, in un sol colpo, non solo fa fuori qualsiasi spin-off su “Wolverine”, facendo dimenticare anche le diffuse rozzezze che affliggevano "X-men-capitolo finale" (affidato, all’epoca, a un regista più a suo agio con l’action che con le psicologie), ma realizza innegabilmente uno dei migliori capitoli in assoluto dell’intera saga. Innanzitutto per la storia che, riprendendo con qualche "perdonabile" libertà uno degli albi più amati dei primi anni ’80, riesce a giocare sapientemente con i viaggi nel tempo (flirtando pure coi paradossi temporali) e semina qua e là schegge storico-politiche di devastante attualità (delitti di stato, l’ombra del Vietnam, guerra fredda e sperimentazioni genetiche). Poi per il ritmo, di quelli che solo i migliori cinefumetti posso vantare, e infine per uno script capace di bilanciare benissimo azione e introspezione e che, soprattutto, riesce nella non facile impresa di connotare con brevi tocchi tutti i “mutanti” presenti in scena, evitando abilmente che la marginalità toccata in sorte ad alcuni ruoli (vedi, per esempio, Tempesta) trasformi taluni personaggi in mera “tappezzeria”. Ovviamente l’attenzione è tutta concentrata sul magnifico triangolo protagonista delle vicende del passato (ovvero i giovani Magneto, Xavier e una Raven non ancora pienamente Mystica), mentre all'ormai "popolare" Wolverine tocca più essere una fondamentale chiave d’accesso fra dimensioni che un vero e proprio elemento di svolta (anche se questo non diminuisce di un grammo l'impatto del sempre carismatico personaggio). Ma poco importa, perché a uscirne davvero solido e compatto è l’intero universo degli X-Men, qui rappresentato- giocoforza- attraverso dinamiche ormai evolute e consolidate, eppure capace di ammaliare ancora vecchi e nuovi spettatori. E questo sia per l’intelligente aggiornamento sui temi della “diversità” (che a voler sterminare i mutanti sia uno scienziato a sua volta affetto da nanismo la dice lunga), che per la tensione quasi “teatrale” che il regista riesce a innescare fra protagonisti e antagonisti. Un blockbuster? Certamente, ma di quelli con l'animo dell'autore sempre ben in evidenza. Menzione finale (e doverosa) per la straordinaria new entry Pietro-Quicksilver, fra i personaggi più riusciti ed ironici dell’intera saga. La sua incredibile sequenza nel carcere al ritmo di “Time in a bottle” di Jim Croce è già da antologia dei cine-comics…
Andrea Lupo