Bambole, pupi e puppets dominano da sempre l’immaginario orrorifico cinematografico. Ne sapeva qualcosa il nostro Dario Argento che già quarant’anni fa, con una singola sequenza di “Profondo Rosso” e la complicità di un "burattinaio" d’eccellenza come Carlo Rambaldi, era riuscito a condensare in un ghignante bambolotto meccanico, tutte le nostre paure più profonde nei confronti di questi fantocci infantili. E sebbene oggi siamo perfettamente consapevoli che quell’animatrone anni ’70 non fosse per niente posseduto da un qualche demone antico, quanto più “semplicemente” azionato da un killer metodico come un chirurgo, l’ansia dinanzi al suo annunciato ma fugace apparire in scena da allora non è diminuita di un grammo. E’ la bambola, punto. Il suo sguardo vitreo rivolto a tutto (e al tempo stesso a niente) ci sgomenta sempre e di brutto. Chucky, il bambolotto irriverente e assassino, Billy, il pupazzo in triciclo annunciatore di morte in “Saw- L’enigmista”, le marionette di “Dead Silence” e infine Annabelle, feticcio infantile e cuore terrifico de “L’evocazione”. In comune gli ultimi tre titoli citati hanno proprio il regista, James Wan, che coi pupazzi evidentemente mostra di avere un feeling di lunga durata. Un amore che lo ha condotto a produrre, ma non a dirigere, questo spin-off tutto dedicato all’immobile e sogghignante bambola fasciata di bianco e dalle trecce ramate. Un film resosi quasi “necessario” dato che al successo di “The Conjuring” ha contribuito in larga parte proprio lei quando, a cavallo dell'immancabile sedia a dondolo, "sbirciava" dai manifesti promozionali del film-fenomeno 2013. Dalla costola di quell’horror, perfetto, genuinamente prevedibile ma di rara eleganza vintage oltre che curatissimo nella direzione degli attori, nasce la vicenda narrata in questo “Annabelle”, ambientato nella California di fine anni ’60 dove, più che il puzzo di zolfo, a dominare sono gli echi di un terrore che irrompe dentro le mura domestiche infrangendo sicurezze ed equilibri (tanto per intenderci, qui si citano Charles Manson, la gravidanza di “Rosemary’s Baby” e perfino la triste vicenda di Sharon Tate). Due coniugi, una casa, una collezione di bambole (tutte sinistre per la verità) e l’ombra delle sette a sconvolgere il tranquillo focolaio. Senza voler rivelare alcunché della trama (in linea comunque con gli standard narrativi dell’horror “medio”), si apprezza in “Annabelle” il tentativo di non trasformare (per fortuna) la bambola stessa in una grottesco epigono di Chucky. Annabelle non si muove, né si vede mai muoversi (se non in una terrificante sequenza che spiega il perché) ma sembra esercitare comunque il suo malefico influsso sugli eventi stessi del film. Del resto, in linea con quanto declamato dai coniugi Warren, demonologi realmente esistiti (nonchè "custodi" della vera Annabelle) già protagonisti de “L’evocazione”, “non sono gli oggetti ad essere posseduti ma solo le persone, mentre gli oggetti sono solo il tramite del demone per perpetrare l’inganno”. E il demone qui fa davvero capolino in una sequenza d’antologia che segna il picco di un prodotto concluso sì diligentemente ma anche un po’ fiaccamente. I difetti non mancano (personaggi sbozzati e poco condivisibili nelle scelte, l’atmosfera eccessivamente patinata e poco vintage, lo scarso approfondimento del substrato socio-culturale di quegli anni), così come si nota l’assenza di una mano sicura come quella di Wan, capace di coniugare la narrazione al gusto per la rappresentazione gotica. Nonostante questo il divertimento (in termini di horror) c’è tutto e si può tranquillamente passar sopra le carenze di sceneggiatura per amore dell’intrattenimento. Tutto sommato un discreto interludio prima de “L’evocazione 2” dove, si spera, non si deciderà di logorare per eccesso di “esposizione” questa neo-nata icona horror meritevole ormai di stare nella cameretta infantile di ogni appassionato del genere.
Andrea Lupo