Era lecito attendersi, anche per una delle saghe meno “young” e più “adult” di sempre come quella di “Hunger Games”, che alla fine potesse giungere la classica e inevitabile (seppur lieve) battuta d’arresto. Per intenderci, non stiamo dicendo che questo “Canto della rivolta-parte I” sia un film poco riuscito o un capitolo non all’altezza dello standard (visivo e tematico) stabilito dalle due precedenti pellicole. Tuttavia resta innegabile che la suddivisione in due parti dell’ultimo atto della saga distopica ideata da Suzanne Collins, non ha fatto bene al ritmo quasi perfetto della “mancata” trilogia.
Alla fine il marketing (perché tale operazione non può avere altre motivazioni possibili) ha avuto la meglio sulla tenuta narrativa dell’insieme e tutta la prima parte del “Canto della rivolta” verrà ricordata, nonostante alcuni bei momenti, come un capitolo meramente “interlocutorio”, con una Katniss meno memorabile della riluttante eroina che sacrificava se stessa per gli affetti familiari (nel primo Hunger Games) o capace di incrinare pericolosamente il sistema dall’interno dei giochi (La ragazza di fuoco). Nel 3 capitolo e ½ della saga si assiste più ai suoi dissidi interni, fra fedeltà alla causa dei ribelli e desiderio di salvare Peeta, che alla rappresentazione di quella rivoluzione individuale (nata un po’ per caso e un po’ per necessità) che aveva fatto “empatizzare” il pubblico di mezzo mondo con lei.
Perché da un personaggio come Katniss, istintuale, diretto e ferino, ci aspettiamo che la conversione alla causa sia già maturata dopo aver testato sulla propria pelle gli effetti della malattia sociale di Panem, e non che invece avvenga dopo l’ennesima presa d’atto del genocidio all’interno dei distretti. Quel persistente rivolgersi a Peeta e al suo destino infatti fanno sorgere il dubbio che a Katniss interessi più tirarsi fuori (dai giochi), e magari godersi la pensione col collega di distretto, piuttosto che divenire l’incarnazione della ghiandaia imitatrice simbolo di speranza e stimolo di lotta continua per le masse. Sono lievi crepature nella solidità di un personaggio quelle segnalate, digeribili su carta magari ma che, almeno secondo la visione dello spettatore medio, sortiscono l’effetto di uno svilente e non necessario “allungamento” psicologico (oltre che una pericolosa deriva verso il solito dissidio amoroso tipico delle saghe adolescenziali).
Inevitabili forse, di sicuro non del tutto positivi, effetti collaterali che fortunatamente vengono bilanciati dall’introduzione di “spalle” di lusso che svolgono egregiamente il proprio compito come la presidentessa Alma Coin interpretata da Julianne Moore e il curatore di immagine Plutarch, di cui indossa i panni il compianto Philip Seymour Hoffman. E’ grazie a loro che il “Canto della rivolta” riesce a riservare qualche sorpresa e a non annegare nel compitino diligente ma dimenticabile. La costruzione dei Pass-pro della Ghiandaia, con tanto di comparse digitalizzate, trucco e parrucco e slogan preconfezionati a cura della Resistenza, rimandano in modo speculare alle metodologie pubblicitarie usate da Capitol City per sponsorizzare i “giochi della fame” nel primo capitolo e finiscono per creare un ambiguo parallelo (o coincidenza) fra oppressi e oppressori, quantomeno per la medesima spregiudicatezza con cui entrambe le parti mirano ad accattivarsi le masse.
E se nel caso degli hunger games si tratta dell’aristocrazia opulenta, griffata e affamata di sensazioni forti, nella causa della “Ghiandaia” sono invece quei ribelli anonimi già destinati al martirio di massa come una qualsiasi fanteria. E’ in questi momenti che il Canto della rivolta tocca (involontariamente?) il territorio del meta-cinema, con quegli spot preconfezionati che sembrano già dei coming soon e nell’ambiguità con cui mostra la costruzione del messaggio politico-rivoluzionario, fin troppo simile allo spot di un qualsiasi leader sprovvisto, dietro le quinte, di carisma e genuinità (e se trovate strane assonanze con l’attuale realtà politica vuol dire soltanto che è la verità). Alla fine, sembra voler dire il film durante questi “picchi” narrativi, quel che conta è solo accaparrarsi una platea convinta. Si tratti del popolo tele-dipendente di Panem o dei ribelli per giusta causa. E, aggiungeremmo noi, anche di quel pubblico di mezzo globo accorso in massa per le avventure “a metà” di un’eroina chiamata Katniss…
Testo e disegno di Andrea Lupo