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“Big Eyes” di Tim Burton la recensione

Big-Eyes-posterTorna Tim Burton al cinema e lo fa con un film definito dai più come poco “burtoniano”. Ma i più, va detto subito, stavolta si sbagliano perché “Big Eyes” è un film assai più personale quanto lo sarà mai, per fare un esempio, “Alice in Wonderland”. Perché nella storia dell’artista Margareth Keane, la pittrice dei bambini dagli occhi grandi, ricorrono sottili ma intensi riferimenti alla stessa biografia del regista di Burbank. E non parliamo, ovviamente, dell’incredibile vicenda della “paternità” (o maternità) dei quadri, che il truffaldino consorte della Keane si attribuì per anni allo scopo di vendere meglio le sue opere, quanto di quel conflitto fra le insopprimibili esigenze artistiche individuali e le ragioni del marketing che invece mirano a incanalarle e ad appropriarsene, fino alla “spersonalizzazione” dell’artista stesso.

Va detto infatti che Tim Burton prestò inizialmente il suo talento di illustratore immaginifico e freak alla causa dell’industria disneyana. Sotto l’egida della casa di papà Walt veniva annoverato tra i ranghi di quella “manodopera” invisibile artefice di prodotti convenzionali come “Red e Toby nemici amici”, laddove, contemporaneamente, le sue prime incursioni nel gotico, grazie a cortometraggi cult quali “Vincent” e “Frankenweenie”, facevano già storcere il naso ai papabili dello studios di Topolino & Co. Tracce di quel conflitto, risoltosi poi con l’abbandono del lavoro di animatore e la magnifica carriera d’autore che ne è seguita, sembrano emergere subito in “Big Eyes”, dove si parla di arte come urgenza dello spirito (gli occhi grandi, cifra stilistica della Keane, sembravano quasi una dichiarazione di esistenza dell’autrice, donna e artista nei difficili anni ’50) e di arte come fenomeno serializzato e finalizzato al consumismo di massa ( di cui poster e cartoline rappresentano segni tangibili e indiscutibili). Uno scontro fra buoni e cattivi, o se volete fra “freaks” borghesi ed ordinari, sullo sfondo delle stesse villette color pastello di “Edward mani di forbice”. Contenuti tipicamente “burtoniani” questi che si schiantano sulla superficie estetica di un racconto privo di eccessi registici, visioni azzardate (eccetto una) e di fanfare alla Danny Elfman, tutte mancanze da cui è partita la denuncia di film “poco burtoniano”.

Il regista in realtà baratta quel manierismo in cui era caduto con il suo successo commerciale più grande (il già citato “Alice”) con una inedita compostezza formale, forse un po’ eccessiva per molti fan ma di sicuro non meno efficace nel rendere comunque “nera” la sua favola. Perché i mostri stavolta non si concretizzano in personaggi fuori dalle righe (ad eccezione di un istrionico ed eccessivo Christolph Waltz) ma in una silente, sottomessa accettazione di un destino già deciso da altri. E anche se le tenebre stavolta sembrano essere poco rappresentate, quella luce che filtra tra le ombre (vedi la camera della pittura della Keane) appare più nera e opprimente della notte. Manca, va detto, il controcanto di un coro (le classiche figure di contorno “burtoniane” qui restano poco più che bozzetti), ma la narrazione, nel complesso, riesce a centrare comunque il suo bersaglio. “Big Eyes” resta dunque un canto imperfetto ma libero, l’insuccesso (annunciato?) di un autore che cerca di spogliarsi da se stesso solo per “ritrovarsi” nuovamente (attraverso la storia di un’artista che si riappropria della sua anima). Un autore che ha deciso coraggiosamente di abbandonare le masse solo per inseguire la sua “nuova” realtà. Guardandola, ovviamente, con occhi più GRANDI.

Andrea Lupo

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