Ha il ritmo di una jam session jazz l’ultimo incredibile film di Alejandro González Iñárritu. E questo perché, proprio come il jazz, l’intera narrazione è musicalmente scandita dall’incedere apparentemente casuale di piatti, rullare di tamburi e percussioni che s’innestano nel tessuto della storia diventandone prepotentemente protagonisti. Sonorità fumose e avanguardiste che sottolineano i moti dell’anima squassata del protagonista e si fanno quasi conduttore psicanalitico dell’intera trama. “Birdman” è un film che non potrebbe esistere senza il suo ininterrotto flusso sonoro, lo stesso che dà corpo e senso ad una messa in scena improvvisata, fatta di ingressi “casuali” attraverso camere e camerini, sedute di autocoscienza (quella dell’ego sdoppiato di un attore) e aperture “esterne” verso un mondo abitato da attori capricciosi, famiglie insoddisfatte e un’industria (quella hollywoodiana) che vorrebbe dettar legge sugli altrui piani artistici. “Apparentemente” improvvisato nella sua struttura in forma di piano-sequenza ma in realtà studiatissimo ed elaborato, “Birdman” è uno di quei miracoli non soltanto tecnici ma soprattutto artistici, un film che ambisce a raccontare la vita attraverso il teatro e la società attraverso i suoi attori. Un saggio di regia cinematograficamente inarrestabile e intellettualmente irresistibile che, col pretesto di raccontare la storia di una star da cine-comic in cerca di una rivalsa “critica”, porta in scena molto più prosaicamente l’eterna tragedia di un bisogno primordiale, quello di essere amati. “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore” è infatti il titolo dell’opera di Raymond Carver scelta dal protagonista (un superbo Michael Keaton) per la sua rinascita teatrale, ma è anche una frase che suonerebbe bene col punto di domanda finale . Perché l’intima questione dell’opera, al di là dell’ammirevole perizia tecnica con cui il regista incornicia un simile tour-de-force, sta proprio in questo: quante forme può assumere la necessità di essere amati? Una domanda rispetto alla quale il film non è affatto avaro di risposte. Anzi. E’ forse quella Vanità (l’amore per se stessi) in nome della quale non si esita a sacrificare l’affetto familiare o la dedizione per i figli? O magari si identifica (e confonde) con l’adorazione tout court, quel sentimento che l’industria cinematografica crea abilmente a tavolino intorno ai suoi miti, mascherati o meno, rendendoli quasi tossicodipendenti da essa? O ancora è l’amore autentico e viscerale per l’arte pura, quello capace di rianimare le pulsioni sessuali di attori in cerca di se stessi o di spingere fino all’estremo dell’autodistruzione? Chissà, forse l’unico bisogno di amore concretamente possibile oggi, sembrerebbe suggerire cinicamente la figlia del protagonista, resta quell’essere visibili e “cliccati” nell’era (leggi “dittatura”) dei social network. Queste insomma le molteplici declinazioni del desiderio che il film mette in scena fuori e dietro le quinte del suo incredibile e densissimo palcoscenico meta-cinematografico. Un luogo quel palco che, proprio come la vita, è decisamente troppo piccolo per contenere emozioni tanto ampie e smisurate. Per questo in “Birdman” diventa necessario infrangere tutte le convenzioni e non solo quelle della finzione. Per questo alla fine “volare” diventa atto indispensabile per il protagonista, nonchè l’unica visione finale realmente significativa. E anche se quel volo è visibile soltanto nello sguardo di chi osserva e oltre i bordi neri di uno schermo cinematografico, dentro quella splendida metafora finiamo inevitabilmente per perderci anche noi semplici spettatori.
Andrea Lupo