Triste destino quello dei musical al cinema. Ancor più triste poi in Italia, terra eletta dell’opera lirica ma, a giudicare dall’accoglienza riservata a opere come “Les miserables” o “Il fantasma dell’opera”, sufficientemente insensibile al bel canto, specialmente quando questo è avvolto dalle forme accattivanti del cinematografo e accompagnato dalle inaspettate performance di ugole hollywoodiane (Russell Crowe, Hugh Jackman, Meryl Streep). Un destino gramo in un paese che pensa più a insegnare la musica a scuola (tra odiati flauti e solfeggi-base) invece di fare dell’educazione musicale una disciplina. Perché, innegabilmente, musica e sensibilità camminano di pari passo, quel passo che di sicuro non appartiene ai talent- show, ai musicarelli teatrali (Cocciante con tutti i suoi epigoni) e a quel MP3 che tutto archivia e nulla restituisce. Così di veramente “sonoro” in Italia sono rimasti i flop cinematografici come quello riservato a “Into the woods”, trasposizione hollywoodiana del musical che calca la scena americana dal 1987. A discolpa di chi non regge troppo il cantato si potrebbe dire che l’autore Stephen Sondheim (già responsabile di “Sweeney Todd”) non è magari fra quelli che affascinano al primo ascolto. Tuttavia l’indifferenza italiana nei confronti della pellicola (rispetto all’accoglienza americana trionfale) è ascrivibile ancora una volta alla riluttanza tutta nostrana nei confronti di liriche e orchestrazioni al cinema (laddove al teatro è trionfo della mediocrità fra ridondanti Notre Dame de Paris e stucchevoli Promessi Sposi). In più su “Into the Woods” pesa l’aggravante di essere non solo una (coraggiosa) produzione Disney del tutto in controtendenza con la soave ma ruffianissima “Cenerentola”, ma anche una sapiente rilettura di noti personaggi e archetipi fiabeschi, qui mostrati in tutta la loro problematicità e destrutturati in modo quasi impietoso. Tante, forse troppe anime per un solo film e per un pubblico predisposto (ormai) alle sole letture monodimensionali e a spensieratezze infantili. Nonostante ciò “Into the woods” resta un film imperdibile perché svelto e accattivante, recitato da un cast perfetto (su cui troneggia fra rughe, ironia e perfidia una Meryl Streep da Oscar) e accompagnato da una scrittura intelligentissima che gioca ad intrecciare celebri fiabe dei fratelli Grimm, ironizzando sulle stesse e sui loro risvolti orrorifici e psicoanalitici. Dentro il bosco intricato che pare quasi la proiezione di un subconscio freudiano, si alternano (polifonicamente) irritanti Cappuccetti Rossi, indecise Cenerentole in cerca di sogni medio-borghesi, principi farfalloni pieni di sé e streghe intese a riconquistare aspetto e rispetto. Tutti in cerca di qualcosa che l’happy end tradizionale non può dar loro (e infatti a tre quarti di film il lieto fine viene sorprendentemente negato per lasciare spazio a un cupo quanto necessario quarto atto). “Occhio a ciò che desideri…Potresti ottenerlo!” sembrerebbe il monito rivolto a queste figure acerbe, conflittuali e (inevitabilmente) umane, personaggi in cerca d’autore ma, soprattutto, di una ricollocazione all’interno del mondo. Finita la magia e debellate le streghe (ma in realtà escono di scena da sole) restano, al termine dello spettacolo, solo le ceneri dei protagonisti rimodellati dagli eventi e parti di un rinnovato nucleo familiare (e sociale) che reclama una voce per essere “raccontato”. E chi può essere il narratore se non l’adulto o, meglio, il genitore, colui sul quale incombe la responsabilità più grande, quella di essere vero e “credibile” dinanzi agli occhi del bambino che ascolta. Forse è per questo che i primi a non gradire “Into the woods” sono stati i genitori: si aspettavano di godere insieme la “fiaba” e invece hanno dovuto fare i conti con la “favola”…
I bambini ci ascoltano, siamo noi che dobbiamo imparare a parlare…
Andrea Lupo