Sotto il profilo filosofico il “paradosso” è quel ragionamento che, pur partendo da premesse saldamente ancorate alla logica, finisce per condurre a conclusioni impossibili o in contrasto con l’opinione comune (la “doxa” per l’appunto). Un esercizio del pensiero che si dispiega nei territori dell’assurdo, serbando però al suo interno coerenza e validità. In ambito scientifico il paradosso temporale, basato sulle premesse di Einstein e sull’ipotizzabilità dei viaggi nello spazio-tempo, è quello che più mette alla prova la tenuta della logica di partenza, nonchè l’ “equilibrio” di chi vi ragiona sopra. Il tempo in fondo è un concetto (ancor prima che una dimensione) che si piega idealmente al bisogno di ipotizzare tipicamente umano, con tutte le insolite conseguenze dei “se” applicabili alle varie possibilità. La letteratura di fantascienza, e a seguire il cinema, hanno sempre trovato nel tema dei viaggi temporali e dei paradossi conseguenti alle violazioni di quelle linee di destino già tracciate, un terreno fertile per rappresentazioni tanto affascinanti quanto “impossibili”. Narrazioni stimolanti che muovono dagli archetipi più lineari (“The time machine”, “Ritorno al futuro”) fin verso le divagazioni più intricate (“Looper”), passando per quelle che utilizzano il paradosso temporale come propulsore della storia o necessario deus ex machina (“Terminator”, “Interstellar”) . Esempi di cinema del paradosso ai quali si affianca con merito quest’ultimo “Predestination” firmato Spierig Brothers (“Daybreakers- L’ultimo vampiro”), ideale prosecuzione, se non esasperazione, dell’infinito ragionare filmico intorno alla questio.
La premessa da cui muove una pellicola complessa (ma non difficile) come questa è di usare il paradosso temporale non soltanto come tassello narrativo, ma quale motivazione e ragion d’essere implicita del medesimo “fare cinema”. Un’affermazione apparentemente incomprensibile ma che appare anche l’unica concessione possibile (perchè andare oltre sarebbe disonestà critica) nei confronti di una struttura filmica tanto ardita. C’è una trama ovviamente (basata sul racconto del 1959 “Tutti voi zombie” di Robert A. Heinleincon) che snocciola agenti spazio-temporali, organizzazioni segrete, macchinazioni da risolvere e terroristi da fermare prima delle stragi. “Dejà vu” provenienti da altri luoghi cinematografici insomma, ma anche elementi messi al servizio di ben altre “trame”, assai più bizantine di quanto forse lo spettatore medio non sia disposto ad accettare. Perché fra tutte le pellicole che trattano il viaggio nel tempo “Predestination” è sicuramente una fra le più ambiziose ma anche quella più facilmente imputabile di essere solo un gioco “ozioso” o una narrazione “fine a se stessa”. E’ indubbio che, sezionato nelle sue parti, il film individua il suo principale centro di gravità nella rappresentazione del paradosso temporale tout-court, visivamente rapportabile a un labirinto escheriano geometricamente coerente ma anche a un dedalo stordente senza soluzione di continuità. Un esercizio di stile ovviamente ma, si badi, non per questo scollato dalle emozioni. Perché la forza di una pellicola come questa non risiede solo nel suo innegabile fascino cervellotico, ma è ravvisabile nell’innesto (un “inception” nolaniano?) di emozioni autentiche e credibili, scaturenti non solo da una materia filmica maneggiata con cura (il film inizia e procede fino a metà quasi come un noir, fra fumo, bar e confessioni), ma anche dall’empatia con i suoi personaggi, scritti bene e altrettanto benissimo incarnati. E se Ethan Hawke aggiunge un bel tassello alla sua filmografia distopica (dopo “Gattaca”, “Daybreakers” e “The purge”) un plauso convinto va alla bravissima semisconosciuta Sarah Snook che attrae, letteralmente, come un magnete.
Si diceva delle emozioni suscitate ma non si tratta di quelle facilmente immaginabili dal pubblico, in quanto qui si osa andare oltre la storia d’amore o il prevedibile melò. Perché di “Predestination”, senza troppo svelare, colpisce la disinvoltura con cui vengono messe in scena le implicazioni emotive conseguenti al paradosso temporale, fra angosce esistenziali (l’io fratturato nel corso del tempo, l’identità scomposta) e schiaccianti solitudini che ridefiniscono il concetto base di innamoramento e perfino quello di “gender”. Roba e idee che tanti affermati autori stenterebbero a concepire in una vita e che qui convivono mirabilmente in una narrazione svelta, fieramente sci-fi e mai ampollosa. Gli Spierig Brothers scrutano al di là del paradosso, intrappolando il pubblico dentro il moto di un serpente che si morde la coda all’infinito e rivelandogli, anche solo per poco, le singolarità impossibili del tempo e quelle altrettanto insondabili e imprevedibili del desiderio. Il loro è un gioco certamente, ma anche, indiscutibilmente, ottimo cinema. L’unico vero paradosso per l’appassionato spettatore sarebbe farselo sfuggire.
Andrea Lupo