Suburra. Sub-urbis. Ai tempi della dinastia Giulio-Claudia quel quartiere popolare situato a poca distanza dalla Casa Imperiale dove fiorivano i bordelli, il commercio e aveva residenza la criminalità (ma anche il luogo da cui proveniva la gens Giulia e lo stesso Caio Giulio Cesare). Uno spazio fisico destinato a diventare nei secoli ambito metaforico per marcio e corruzione, ma anche il simbolo di quella deriva che geograficamente riguarda tutte le grandi città. Quella Roma imperiale dove, per citare Tacito, “confluivano tutti i peccati e vizi per esservi glorificati”, ha lasciato spazio alla capitale di oggi, moderna sì ma sempre antica, metropoli che trattiene la Storia dentro le vestigia dei suoi nobili monumenti ma che ne risputa una più oscura e limacciosa fra i palazzi del Potere e i rioni fuori centro. Una Roma dove Peccato e Cristianità sembrano attrarsi irresistibilmente come coda e serpente di una lemniscata senza vie d’uscita, tracciata fra i neon riflessi delle strade bagnate e il giallo-cupo delle architetture notturne. Questa è la Suburra che Stefano Sollima racconta nel suo noir esplicito e diretto, solido esempio di come fare ancora (buon) cinema di genere in Italia nonostante una deriva televisiva che ha inquinato estetica e linguaggi.
“Raccontare” si diceva perché, al di là dell’accurata messa in scena, “Suburra” è soprattutto una narrazione accattivante e, sotto il profilo cinematografico, diligentemente scandita nel rispetto delle regole del mezzo stesso. Nessuna coralità s’intende, nonostante lo sguardo del regista talloni i personaggi con ambizioni quasi “altmaniane”, ma un’unica serrata vicenda (che in fondo è la storia di un Affare che “deve” arrivare a conclusione prima della FINE) che avviluppa protagonisti di varia ed emblematica ingombranza. Si va dal politico “traffichino” e meschino, schiavo degli istinti e della sua alterigia (Pierfrancesco Favino) al borghese “piccolo piccolo” di Elio Germano, miseramente incastrato fra normalità, codardia e furore. In mezzo a questi due anelli fondamentali della narrazione – l’uno “necessario” l’altro “casuale”- emergono tre figure da romanzo (criminale) diversamente rappresentative della triste realtà cronachistica. Il Samurai di Claudio Amendola, sorta di padrino “politico” che vorrebbe stagliarsi al di là del sangue e delle guerre di rione, Numero 8 (un magnetico Alessandro Borghi) che ne è quasi la sua versione giovanile incosciente ed imprevedibile e infine Manfredi, capo-clan volgare e feroce, evocazione kitsch di una Suburra più antica e fisicamente temibile.
Tre configurazioni diverse di Male alle quali non fa da contraltare alcun Bene (per scelta precisa degli sceneggiatori Rulli e Petraglia, che hanno tagliato fuori l’antagonista positivo del romanzo originale di Bonini e De Cataldo, il tenente Malatesta) se non quello effimero evocato dalla figura di un dimissionario Santo Padre, corpo ambiguamente inquadrato di spalle non si sa bene se per pudore nei confronti di quell’intima scelta di fede o per un intrinseco ed allusivo “voltare le spalle” dinanzi a intrecci tacitamente avallati. Una scelta, quella di mettere a fuoco solo la prospettiva della Suburra, forse poco condivisibile per quei lettori che pretendono il rispetto dell’opera letteraria, ma che invece, sotto quello cinematografico, evita rischiose scivolate nel didascalismo, consegnando direttamente nelle mani dello spettatore l’incarico di operare da coscienza morale o magari, soltanto, di prendere atto della naturale visione nichilista del genere (noir). Perché sebbene “Suburra” non dica nulla che non sapessimo già (e che le cronache non abbiano già ampiamente superato) e rimanga lontano dal divenire pamphlet politico (cautamente oseremmo dire), quel che lascia alla fine dei giochi è più la fascinazione del “come” che la rilevanza del “cosa”. E’ una qualità che emerge nella precisione della sua scansione narrativa quasi “ascensionale” (un countdown che parte dalla tragedia di una qualunque “senza nome” e risale fino a giochi di palazzo, appalti e criminalità), risiede in certe suggestioni visivo-sonore che permeano alcune sequenze (ma più che la pioggia contano quei bagliori solenni dietro i vetri bagnati) o in tese e veloci sparatorie che minano la tranquillità dei ritrovi (le spa, i centri commerciali). Trova compimento infine in quella fisicità autentica e disfatta che coinvolge corpi, cadaveri e femminili “ritornanti” ai quali è affidato il compito di riazzerare il conto alla rovescia fino alla prossima Apocalisse. Non sarà il cinema politico degli anni ’70 ma per far rinascere un genere può davvero bastare.
Andrea Lupo