La sequenza sui titoli di testa non lascia scampo: la macchina da presa inquadra un Cristo di legno coperto di neve e si muove lentamente fino a rivelare una distesa innevata, gelida e quasi anonima. Fin troppo facile intuire l’ovvio: Dio non abita più qui. La Terra (il Wyoming ma potrebbe trattarsi di qualsiasi altro non-luogo della Frontiera) è solo un affare di uomini e la diligenza che sta sopraggiungendo sta lì per ricordarcelo. Sembra un incipit alla Joel e Ethan Coen ma in realtà è Tarantino. L’ottavo Quentin Tarantino per la precisione, cineasta coltissimo e onnivoro che da oltre vent’anni maneggia il cinema con la devozione dei “classici” e l’irreverenza di un nerd, elevando sempre più in alto, pellicola dopo pellicola, la sua infinita e autoreferenziale Babele di parole e immagini. Dal pulp al noir, dallo slasher comico al manga-vengeance (con licenza inventando), passando per lo storico (anche qui reinventato) e, naturalmente, attraverso il western. Genere quest’ultimo che ritorna oggi, dopo la rilettura in chiave politico-schiavista di “Django Unchained”, con “The Hateful Eight”, opera forse tra le più radicali e rischiose di tutta la filmografia del nostro Mr. Brown. Ma siamo al suo personale 8 (e mezzo, se si considera la metà grindhouse di “A prova di morte” e si soprassiede allo scherzetto di neanche mezz’ora di “Four Rooms”) e qualche rischio è lecito prenderselo. Così “The Hateful Eight” (titolo meravigliosamente assonante come “The 8ful Hate”), storia di otto bastardi chiusi dentro un emporio in balìa della tormenta fra inganni, doppiogiochismi e parole che deflagrano prima delle pallottole, è, giustamente, anche un inevitabile film-summa.
La pellicola (è il caso di dirlo visto che il film è stato girato nello storico formato in 70 mm, anche se a goderselo con Ouverture ed Intermission saranno solo pochi fortunati) passa infatti in rassegna ogni esemplare umano, struttura narrativa e nevrosi (ad alto tasso di logorrea s’intende) di un universo ben noto e globalmente metabolizzato. Un mondo abitato da iene, dove si filosofeggia quasi quanto (ci) si uccide e in cui le trame si ribaltano, letteralmente, come le botole di un deus ex machina all’incontrario. Un universo in cui alla bidimensionalità dei ruoli (e dei corpi) corrisponde una profonda complessità dei caratteri e dove la cronologia degli eventi obbedisce a quel tasto di rewind pigiato beffardamente dal suo creatore. Connotati di cinema che si ritrovano tutti in “The Hateful Eight” e che potrebbero indurre lo spettatore superficiale a liquidare sbrigativamente questa ottava sperimentazione cinefila di Tarantino come una loquacissima autoparodia, imbrigliata dentro la sua stessa unità di tempo e di spazio e perfino più impegnativa rispetto al passato. Per fortuna così non è. Che si tratti di teatro, metacinema o semplicemente di un western dalle coordinate classiche (sottolineate con efficacia dall’ispiratissima colonna sonora di Ennio Morricone) poco importa. Conta piuttosto che il regista, grazie a quei già memorabili otto inglorious bastards pronti a scannarsi per un niente, è riuscito a schiaffare in faccia all’America l’affresco politico-realista che meritava, quello fatto di antieroi con la pistola (mica idealisti alla Sam Peckinpah o pistoleri eastwoodiani tutti d’un pezzo), di uomini di legge armati di spocchia e fifa e reduci di guerra marchiati a fuoco come le vacche da un genoma segregazionista (e ogni riferimento di chi scrive all’attualità di Trump è “volutamente” casuale). Un paese ridotto quasi a caricatura, soprattutto per quel suo essere facilmente rappresentabile attraverso un nastro divisorio fittiziamente tracciato in una stanza.
La forca pendeva allora proprio come oggi, macabra proiezione di quel taglione con cui gli States mercanteggiano da secoli la propria anima e ogni residua ideologia, mentre bianchi, neri, messicani, sudisti e nordisti si agitano sul palco di Tarantino come figurine interscambiabili di un medesimo rancore, questo sì unico, vero sopravvissuto alla guerra di secessione. L’emporio di Minnie viene eletto così a teatro-tribunale, sede ideale di un gioco (anche politico) delle parti in cui i giurati-spettatori non sono chiamati tanto a sentenziare (perchè non può esserci giustizia) quanto ad assistere divertiti al macello. A incorniciare ironicamente il massacro sbuca poi, con valenza cinematografica pari quasi a quella della valigetta di “Pulp Fiction”, perfino una lettera di Abramo Lincoln, padre (presunto) dell’abolizionismo, missiva personale che Samuel L. Jackson difende fino alla morte come una reliquia. Dovrebbe simboleggiare qualcosa (di buono?) ma, probabilmente – pare suggerire Tarantino- non è altro che un cimelio già vetusto che il paese preferisce sbandierare senza però ricordarne davvero il significato. Non a caso la prima volta che viene tirata fuori, quella “bastarda” di Daisy Domergue (una fantastica Jennifer Jason-Leigh) non ci pensa due volte a sputarci sopra… “…and the star-spangled banner in triumph shall wave O’er the land of the free and the home of the brave!”
Andrea Lupo