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Addio a Paolo Poli, teatrante ironico, autentico e “necessario”

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Felice chi è diverso essendo egli diverso. Ma guai a chi è diverso essendo egli comune”.

Il sottostimato (e poco visto) documentario di Gianni Amelio  “Felice chi è diverso” deve il proprio titolo al celebre verso del poeta Sandro Penna, citato proprio dall’intramontabile genio del teatro Paolo Poli, prezioso testimone del costume omosessuale italiano nel dopoguerra televisivo e teatrale. Poli era “diverso”, ma vantava una diversità fuori dal comune, esibita, colta e non imborghesita. “Alta” come si conveniva al suo teatro anarchico e sottilmente surreale, ma mai altezzosa o distaccata.  Comica, com’è  tipico della tradizione toscana, ma svincolata dalla boria regionalistica che affligge tanti suoi colleghi commedianti. Poli era diverso in modo aggraziato, orgoglioso e mai inutilmente frivolo. Anzi proprio grazie a quella gestualità diretta, feminea ed autentica riusciva a sintonizzarsi immediatamente con lo spettatore “comune”, fornendogli probabilmente la miglior chiave d’accesso possibile ai contenuti del suo pensiero.

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Non facendo mistero della sua omosessualità nell’Italia bacchettona di fine anni ’50, l’artista toscano sgomberava subito il campo da ogni lettura ambigua del personaggio, consentendo immediatamente al pubblico di concentrarsi su ciò che davvero contava: la voce di un uomo che pensa e parla in libertà e che soprattutto riferisce la verità. Una verità, la sua, che non aveva bisogno, a differenza dell’attore, di ulteriori travestimenti e che per questo giungeva limpida e sferzante ai suoi numerosi uditori, sotto tutte le tonalità possibili del maschio e della femmina, del cavaliere e della strega, del frate e della santa. Una verità talmente forte da meritarsi perfino interrogazioni politiche per mano di democristiani inorriditi (accadeva nel lontano ma ideologicamente vicino 1966) dal giocoso “vilipendio” praticato sulla religione di Stato (l’opera era “Rita da Cascia”, tour de force incredibile dell’attore che curò ogni aspetto tecnico, dalla recitazione al trucco, dai costumi alle scenografie). Censure, cancellazioni e perfino irruzioni a teatro da parte dei carabinieri caratterizzeranno la sua carriera sul palco, ma anche fuori e dentro quella scatola ecumenica chiamata televisione di Stato nei tumultuosi anni ‘70.

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Scomodo trovatore d’altri tempi, uno che all’amor cortese preferiva il canto della provocazione per sublimare magari quell’intrinseca malinconia che ne affliggeva (ed alimentava) silenziosamente l’anima, da lui “felicemente” esibita nella più nuda delle sedute terapeutiche, quella d’artista. Paolo Poli ci ha detto addio lo scorso 25 Marzo, rendendo più povera la già precaria società culturale italiana ma regalando i semi della riscoperta alle generazioni di ieri e di oggi. E se, fra biografismi e filmati d’epoca rispolverati per l’occasione e ricordi affettuosi dei colleghi, potessimo dare un consiglio a chi si approccia per la prima volta al personaggio, quello lo rivolgeremmo subito ai tanti giovani ideologicamente etichettati da slogan “sinistri” e ingabbiati nell’ipocrisia politica dei social. Ripescate l’universo, la gioiosa anarchia e la filosofia di Paolo Poli per ispirare meglio il vostro pensiero piuttosto che le icone rivoluzionarie da t-shirt. Fatelo magari proprio a partire da quel “Rita da Cascia” che tanto fece storcere il naso ai politici medievali degli anni ’60. Si trova facilmente su You Tube e guardarla può solo far bene al cervello, disintossicandovi un po’ dai troppi, inutili video su gattini ed altre idiote celebrazioni mediatiche del nulla. La via migliore per non diventare, come diceva lui, una delle tante “cattive imitazioni dell’uomo” (e d’artista) in giro per il mondo magari è proprio questa.

Testo e disegno di Andrea Lupo

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