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“La foresta dei sogni”- la recensione

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Aokigahara, situata alla pendici del monte Fuji, è il bosco fisico e il luogo “mentale” che ogni anno giapponesi (e non solo) scelgono quale uscio silenzioso poco prima di prendere volontariamente congedo dalla vita. 35 chilometri di rocce spigolose, alberi austeri, spelonche e arbusti che ghermiscono come arti scheletrici, noti anche come “foresta dei suicidi”. Una gigantesca e naturale fossa comune fatta di vestigia moderne, ossa, foglie e silenzio. Perché neppure il vento a Aokigahara fa più udire la sua voce. Una tomba frondosa per molti, un remoto purgatorio per alcuni altri, per quelli che tornano indietro redenti o magari solo spaventati. Non deve essere stato difficile per i critici di Cannes 2015 demolire quest’ultima regia di Gus Van Sant ricorrendo alla metafora della foresta quale teatro ideale di un suicidio cinematografico. Tedioso, strappalacrime, scopertamente simbolico o new age; questi i capi d’accusa principali mossi contro l’autore. Giuria unanime, sentenziata stroncatura. Ora, non staremo qui a presentare controdeduzioni convincenti per ognuna delle imputazioni a carico del regista di “Elephant” e “Milk”. Qualsiasi film del resto, una volta consegnato al pubblico, diviene una sorta di creatura “duttile” al servizio di ciascuna sensibilità, bella o brutta che sia. Quella del critico “da festival” (categoria bisognosa di un’approfondita indagine etologica)  è però una sensibilità eccitabile, vagamente superiore e fieramente urticante. Si accende – nel bel mezzo di bulimiche scalette da concorso – soprattutto dinanzi alle prestazioni dell’autore consolidato, indagando con avidità le fondamenta di ogni sua nuova opera alla ricerca di vizi che facciano sprofondare l’architettura fin lì costruita. Così, al cospetto di creazioni meno ambiziose e poco indie dello stesso (come in questo caso), affila la penna e trattiene il fiato per i fischi eccellenti, giusto perché a lui, intellettuale blasonato e imprescindibile, perfino in piena kermesse sono concesse licenze da “bovaro”.

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Di “The Sea of Trees” (bel titolo originale che sta per “Il Mare di alberi”) era perfino logico immaginare che ad essere attaccata sarebbe stata innanzitutto la struttura prosaica, il cotè filosofico-misticheggiante e un senso più “scoperto” del dramma. Inevitabile, soprattutto alla luce di quel soave, trattenuto ed intimista elogio funebre della vita che era invece il precedente “Restless”. Il male tuttavia non risiede tanto nella fondatezza delle ragioni “critiche” utili a validare una qualunque stroncatura (lecita s’intende, purchè ben argomentata), quanto nell’aprioristico rifiuto, da parte di colui che dell’analisi ne ha fatto mestiere, di volersi addentrare nelle imperfezioni dell’opera stessa e fra le pieghe delle sue slabbrature. E’ una pratica intellettuale difficile (perché umile), malvista (perché potrebbe portare a confutare se stessi) e spesso ripudiata dai più. Ma è anche l’operazione che separa il critico serio da un quasiasi merlo fischiatore. E forse è questa incapacità intellettuale a spiegare la leggerezza con cui è stata stroncata un’opera tutt’altro che “leggera”, per tematiche e resa cinematografica, come “La foresta dei sogni”. Senza nascondere la polvere sotto il tappeto (per eccessivo ossequio all’autore), diciamo subito che il film è imperfetto e a tratti didascalico, minato da una convenzionalità linguistica hollywoodiana lontana anni luce da quella radicalità di sguardo cui ci aveva abituato invece l’autore. Talmente ingenuo in alcuni snodi narrativi da suscitare (in chi è più accorto e smaliziato) perfino un certo ridicolo. Eppure… Eppure il film riesce nonostante tutto a comunicarci tra le pieghe di un racconto niente affatto nuovo, l’abisso di quelle due anime addolorate e già marcescenti perdutesi fra i filari di quegli alberi-sentinella. Sono quella di un americano e la sua gemella giapponese, giustapposizione -più che contrapposizione- metaforica di un Occidente nevrotico e individualista e di un Oriente sofferente ma pietoso. Anime che affrontano la medesima selva oscura, unite (forse) dalla stessa intenzione autodistruttiva, e che si misurano con un passato che, su schermo, prende due sentieri diversi. Quello americano si fa storytelling “visibile” e fruibile dinanzi a noi, sorta di parabola aperta e scoperta su famiglia e senso di colpa (la incarnano i tormentati Matthew McConaughey e Naomi Watts), cui siamo stati già abituati da tanto cinema a stelle strisce; quello giapponese, appena sussurrato, diviene invece aforisma fiero e spirituale sul riserbo e sulle ragioni, incomprensibili, che muovono una difficilissima scelta interiore (e si affida allo sguardo umido e tormentato dell’impiegato Ken Watanabe). Da un lato c’è l’Occidente edonista ferito per via del suo sogno familiare incancrenito; dall’altro v’è quell’Oriente annientato dalla sua stessa abnegazione e da un senso del dovere e dell’onore (eredità del seppuku) che divengono moderna pressione esistenziale. Il primo, individuate le ragioni, mira ad autodistruggersi, benchè intimamente cerchi ancora conforto e condivisione. Il secondo invece  insegue un gesto liberatorio, dissolvendosi come uno spettro in quel nulla che invece è tutto. Si incontrano, il primo bisognoso del secondo, proprio come una storia in cerca del suo narratore.

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E’ l’Oriente “a misura” di Occidente quello che il regista è interessato a raccontare. Non un prevedibile dramma familiare nè una scontata vicenda di sopravvivenza. Van Sant narra di quel dolore che cerca una (impossibile?) traduzione di senso e inquadra il desiderio di morte poco prima che si trasfiguri in rinascita. Non racconta ciò che accade davvero ma soltanto quello che può diventare auspicabile. L’ironia tragica ed inspiegabile della vita (la malattia, l’incidente) che cerchiamo di decodificare attraverso allegorie provenienti da un altrove o fiabe che ci camminano ancora dentro. Non è dunque, a ben vedere, un confronto fra due visioni (o culture) distanti e al tempo stesso complementari, ma il resoconto di quell’unica visione a lui (e a noi) possibile e comprensibile, corroborata da una saggezza che, al fondo, riscalda. Sta in chi guarda stabilire se un tale calore è soltanto sollievo new age o è davvero quella coperta che copre un corpo malfermo sotto la pioggia battente. Se c’è davvero un vizio imperdonabile in quest’ultima opera di Van Sant è probabilmente quello di un regista che ha “denudato” eccessivamente la sua visione intimista per renderla sopportabile e intellegibile a tutti. Anche al rischio di una o centomila stroncature. Ma l’ha fatto col candore di un esordiente e la sincerità di un vecchio amico. E l’onestà, anche quando è difettosa, non andrebbe mai fischiata.

Andrea Lupo

 

 

 

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