Furono le drag-queen le più coraggiose. Quelle che per prime si sporcarono le mani tirando bottiglie e scarpe col tacco contro una polizia sempre più violenta durante quella notte arroventata del 27 Giugno del 1969. Una fanteria colorata, imparruccata e truccatissima ma, soprattutto, assai più arrabbiata dei tanti maschietti silenziosi e incravattati (i cosiddetti “gentlemen deviant”, omosessuali socialmente integrati) che frequentavano in incognito il bar più celebre della storia del Greenwich Village, lo Stonewall Inn. Fu davanti a quel locale che il movimento omosessuale americano assunse pienamente carattere e identità e che la parola “Stonewall” divenne sintomatica di un processo di demolizione ideologica ormai non più rinviabile. C’era un muro da abbattere, quello delle discriminazioni basate sugli orientamenti e gli atteggiamenti sessuali, una barriera che negli anni ’60 confinava idealmente con le recinzioni che già isolavano neri, movimenti studenteschi e pacifisti anti-Vietnam. Ci volevano una zeppa (quella lanciata dal transessuale Sylvia Rivera), dosi massicce di fegato e un pride tutt’altro che effeminato per reagire agli insulti, agli arresti, alle canzoni denigratorie e alle manganellate elargite gratuitamente dalla polizia che faceva irruzione nel bar. Ci voleva, appunto, la “pazzia” liberatoria di creature che il mondo lo guardavano da altezze superiori ai soliti 12 centimetri di tacco, spartiacque ideale fra grigia omologazione borghese e teatrale, lucidissima “favolosità”. Le drag chiamarono perfino a raccolta mezzo quartiere. E la gente di Christopher Street non tardò a rispondere loro, braccando poliziotti in inferiorità numerica, serrandoli dentro il bar con invisibili catene color arcobaleno. E canzonandoli con loro, finalmente:
” We are the Stonewall girls, We wear our hair in curls, We wear no underwear, We show our pubic hair, We wear our dungarees, Above our nelly knees!”
” Siamo le ragazze dello Stonewall, abbiamo i capelli a boccoli, non indossiamo mutande, mostriamo il pelo pubico e portiamo i nostri jeans, sopra i nostri ginocchi da checche!”
La New York omofobica di fine anni ’60 (e il dipartimento di polizia stesso) mai si sarebbe aspettata che delle “checche” coi capelli a boccoli potessero uscire le palle in quel modo, che polvere incendiaria potesse covare sotto matite e fondotinta o che i falsetti potessero mutare in rabbiose grida di guerra (“Gay power!”). Lo scoprirono durante quella tumultuosa notte a cavallo fra il 27 e il 28 Giugno, da allora commemorata nelle parate LGBT di tutto il mondo. Quella notte d’inizio estate (cui seguirono altri due giorni di protesta) che sancì “la caduta della forcina che si udì in tutto il mondo” come disse il professore di storia e teoria gender John D’Emilio. Il primo film tratto sul tema (Stonewall di Nigel Finch, 1995) alimenta la leggenda che a determinare i moti di quella sera fu lo sconforto per la morte, avvenuta solo pochi giorni prima, dell’icona gay Judy Garland, evento, quest’ultimo, che, insieme alla partecipazione di massa al funerale da parte di migliaia di omosessuali, avrebbe fatto poi da propulsore psicologico per una comunità già provata dalle violenze e in cerca di una nuova affermazione identitaria. Ma se è vero che la Dorothy del favoloso mondo di Oz aveva idealmente condotto a braccetto, per oltre trent’anni, la comunità queer dal sentiero dorato fino oltre un arcobaleno desiderabile, poco credibile e semplicistica appare questa spiegazione per giustificare l’azione dei riottosi di stonewall. Era piuttosto la reazione uguale e contraria di una fetta di umanità esasperata dalle umiliazioni, nevrotizzata da troppe dissimulazioni sociali e soprattutto ferita dal vomito gratuito riversato su di essa da mostri borghesi abbigliati col manto della rispettabilità. Violenta? Sì. Necessaria? Assolutamente. Del resto mancavano ancora otto anni all’elezione del primo politico dichiaratamente gay (Harvey Milk) e nove al suo tragico assassinio. La morte di Judy-Dorothy, al più, aveva svelato loro che “casa” non era più quel posto situato ai piedi dell’arcobaleno ma un qualche altrove dove dignità e differenza potevano abitare insieme. Il sentiero dorato invece bisognava costruirselo da soli mattone dopo mattone. Anche a costo di far sanguinare naso e mani oltre che il cuore.
A ricordarci che un muro di mattoni ideologici, nonostante quello storico scatto d’orgoglio, esiste ancora e va urgentemente abbattuto, ci pensa oggi Roland Emmerich, regista gay dichiarato (sì, proprio l’autore di film muscolari come “Independence day”,”The day after tomorrow” e “2012”), che ha realizzato la sua versione 5.1 dei fatti di “Stonewall”. Certo l’ha fatto con qualche libertà che ha indisposto (giustamente) gli stonewall riots: a lanciare la pietra della rivolta nel film infatti non è una drag-queen di origini portoricane ma un giovane, bianchissimo, figlio dell’american dream, per di più di estrazione contadina. Semplificazioni di scrittura (magari per agevolare l’effetto identificativo del pubblico medio americano) altrove indigeribili ma che qui, nonostante tutto, si fanno perdonare, giusto per l’encomiabile intento storico-divulgativo da parte di un regista normalmente dedito al solo disimpegno mainstream. In fondo poi non è nemmeno così importante sapere chi lanciò la prima pietra o la famigerata scarpa col tacco. Perchè anche se la mano è stata quella di Sylvia Rivera, sappiamo bene che insieme a lei c’erano Dorothy, Judy, l’uomo di latta e molti altri ancora. Tutti gli amici che rendono quell’altra metà del cielo ancora più viva, affollata e “favolosa”. C’erano allora e ci sono ancora oggi. Grazie a quel Dio-arcobaleno che li ha fatti a sua immagine e somiglianza.
Testo e disegno di Andrea Lupo