Venuta, approdo, avvento. Quante accezioni può contenere il titolo “Arrival”? Quanto della pregnanza semantica di un termine riesce a tradursi al cinema in contenuto, metafora ed emozione? E quanto può un genere come la fantascienza, giudicato inopinatamente dai più come pura evasione o distacco dalla realtà, inglobare invece potentissime riflessioni sull’oggi e sul domani, sui pericoli sempre attuali delle derive socio-politiche e sulla necessità di ristabilire un nesso fra dialogo intimo, emotivo ed individuale e il suo corrispettivo globale ed umanistico? Denis Villeneuve, uno che ha sempre strutturato un cinema apparentemente di genere (Prisoners, Sicario) sopra ponderose impalcature critiche, è consapevole di dover fare i conti più con la fantascienza che innesca il pensiero che con quella che disinnesca il ragionamento e per questo ha trovato nel racconto breve di Ted Chiang “Storia della tua vita”, una nuova ed indispensabile chiave di volta per il suo meditare intorno al mezzo cinematografico e soprattutto per il suo speculare sopra la natura umana. “Arrival” giunge dopo le investigazioni psicologiche su paranoia, vendetta e non-riconciliazione che informavano le storie precedenti e si offre come un controcanto necessario, struggente ma al tempo stesso corroborante alle stesse. Una metafora fantascientifica intrisa di urgenza politica e sociale ma anche un’orazione intima e pudica sul dolore, sulle barricate temporali che quest’ultimo innalza e quelle emotive che infrange, e infine una lucida dissertazione sulla linearità sorda e razionale del dire e la circolarità mistica dell’esprimere. Un film sul linguaggio e sul fraintendimento che può comprendere (“la lingua è la prima arma che si sfodera in un conflitto”) e soprattutto una nitida parabola sulla necessità attuale della comunicazione (la condivisione come mezzo per rifondare un tessuto politico globale sempre più logoro), dove però il significante (il simbolo stesso della scrittura) è perfino più importante del significato, perchè determina non tanto un territorio comune per la comprensione reciproca ma, prima di ogni cosa, un territorio.
Venuta. Quella degli alieni, eptapodi che sbucano alla fine del tunnel extraterrestre oltre una coltre di nebbia situata proprio laggiù, ai confini (forse) del subconscio. Vaga reminiscenza tarkovskiana che mette subito in guardia: qui non saranno abduction di terrestri o viaggi interstellari a farla da padrone ma solo e semplicemente l’uomo. Il viaggio allora è fuori, tra leader mondiali interconnessi -e sconnessi- da un click, militari arrovellati dalla Domanda e piccoli rappresentanti umani già custodi della Risposta. L’ossessione che tutti lega dinanzi al disegno imperscrutabile di quei monoliti in sospensione e dalla forma ovoidale è quella che investe le radici medesime del linguaggio e riguarda l’incapacità di stabilire con gli ospiti una comunicazione reciprocamente intellegibile e concretamente significativa. Questioni che poi sono le stesse che affliggono da secoli gli umani e che guardano, con prevedibile coincidenza, alla loro storia attuale, sospesa fra diplomazia formale e fattive chiusure. Dilemmi che si presentano ricorsivamente in questa nuova contrapposizione fra terrestri e alieni (nativi e coloni?) che potrebbe sfociare in una soluzione comunitaria o far controfirmare la tipica disfatta isolazionista del nostro genere. La fantascienza stilla ancora una volta i suoi moniti partendo non dallo spazio profondo ma dalle profondità oscure dell’essere, mentre il peggior giocattolo dell’uomo si conferma l’uomo stesso, che finisce per logorarsi nell’infantile illusione di poterlo (potersi) usare all’infinito. Venuta quindi. Perchè sono venuti per noi.
Approdo. O consapevolezza. Che tutti quanti, dai capi di stato ai capi militari, dalle governance fino alle intelligence, non siano altro che tessere di un Mahjong già concluso da qualcun altro. O di un gioco che non contempla sconfitti. Che l’altra competizione, quella fra scienza e linguaggio (il fisico e la linguista), non esista in quanto entrambe le dottrine approdano alla medesima illuminazione (con la teoria di Sapir-Whorf – l’apprendimento di una lingua modula la nostra percezione del reale – a far da chiave d’accesso individuale al mistero e la matematica quale suo corrispettivo globale). Che l’unico gioco possibile insomma non sia altro che il gioco a somma zero. Senza trionfatori nè ombra di perdenti. Approdo quale consapevolezza. Che soltanto un numero alla fine debba svettare, quella cifra (0) che precede e segue tutte le altre, unendo positivi e negativi entro la circolarità di una sequenza che si avvia e si conclude ciclicamente e all’infinito. Quel segno – zero, cerchio- che è prima di tutto il segnante che dà avvio alla comunicazione interrazziale e da cui miracolosamente si originerà anche un movimento. Il moto di un tempo che nulla disperde veramente ma tutte le cose -e le esistenze- avvolge, comprendendo ogni (apparentemente) insignificante frammento di creato in un abbraccio compassionevole ed eterno. Questo è l’approdo. E siamo noi il punto di arrivo.
Avvento. Dodici gusci oscuri come il mistero ma fecondi di verità come ovuli provenienti da uno spazio più sapiente. Ci allertano sui destini, uniscono reciproche incomprensioni, stabiliscono corrispondenze biunivoche fra umili e potenti, privato e pubblico, tempo e ricordo. Proiezioni fantascientifiche degli apostoli (con l’uomo a comporre e completare il quadro dei tredici), casuale coincidenza numerica o prestabilita combinazione matematica? L’avvento in Arrival è soltanto una questione di prospettive. Tutte rilevanti, nessuna prevalente. A somma zero insomma. Ma l’avvento è anche attesa. Di quanto è gioioso, di un gusto ancora da assaporare, del destino ineluttabile e del dolore che ne seguirà. Ciò che si conosce oggi diviene futura accettazione del dopo. Presa d’atto di una circolarità che incombe su tutti, che prepara meglio a ciò che tutti trova impreparati e che forse allevia il dolore, attutendolo col calore dell’intensità vissuta. La consapevolezza di un Cristo (“Lo accetto”) meno laico di quanto si voglia ammettere, materno e primigenio come l’esistenza, sofferente e rasserenato come un cuore ferito ma felice. Felice proprio perchè ferito. Percorsi mistici o solamente umani inscritti o da inscrivere nel tessuto di tutte le anime, quelle passate e le altre ancora da venire. L’avvento non è che presa di coscienza, cognizione di finitezza, il conio individuale di una moneta chiamata istante, valuta di cui non saremo mai abbastanza sazi e che la vita talvolta non insegna a spendere bene ma che è bene aver avuto in tasca. Perchè l’avvento è in noi.
Venuta. Approdo. Avvento. Quante accezioni può contenere dunque una parola? Tutte quelle che la mente e il cuore sono disposti ad ammettere. Perchè parole e linguaggio sono circolari e noi senza saperlo ci muoveremo sempre con loro. Quel movimento che si scrive tempo ma si legge amore…
Andrea Lupo