Che cosa chiediamo realmente ai sogni se non di comprenderci dentro la loro stessa materia? Esiste forse desiderio più grande al cinema che quello di far parte di un’astrazione, frammenti pulsanti di una fantasmagoria che si muove oltre i confini di spazio e tempo plasmando i suoni e cavalcando i colori? Il cinema è movimento che mira ad espandersi oltre lo schermo, un moto che cerca la vibrazione al di fuori della materia che la causa e che punta ad abbracciare i soggetti che ha dinanzi per corrisponderne il desiderio più semplice e autentico: amare ed essere amati. “The greatest thing you’ll ever learn is just to love and be loved in return…” cantava Ewan McGregor in “Moulin Rouge!”. E il musical, dopotutto, è sempre stato il genere che più di ogni altro ha saputo celebrare il gioioso amplesso originale -e originario- fra spettatori e schermo, carne e celluloide, sintetizzandone i desideri e sintonizzandosi sugli stessi. Quel genere capace di aprire varchi inattesi nell’anima della narrazione (oltre che nella nostra), ma anche inaspettatamente abile nel “richiuderli” nuovamente. Perché se è vero che siamo fatti della stessa sostanza dei sogni a ricordarcelo allora è proprio lui, il più bistrattato e scantonato dei generi, quel musical che al solo nominarlo si crea puntualmente la diaspora fra potenziali spettatori, (tragi)comico rinnovo di un’avversione nazional-popolare ancora oggi ingiustificata. Chiamano in causa, per spiegare una simile insofferenza, la sospensione forzata dell’incredulità e quel soave abbandonarsi a realtà artificiose, barbaglianti e inverosimili, ma forse la vera ragione sta nel non voler essere più compresi in quella materia; non più frammenti pulsanti del sogno originario ma solo testimoni senza rischi dei sogni di qualcun altro.
La disillusione del resto è l’incantesimo triste che miete più vittime nell’oggi e la storia di “La La Land” in tal senso non è altro che la messa in scena di questa disaffezione tutta moderna. Una pièce che finisce per dedicarsi idealmente non (sol)tanto ai “folli e sognatori” protagonisti della vicenda (l’aspirante attrice e il suonatore di jazz), quanto a tutti quegli altri che non sanno più esserlo (o che magari non sanno ancora di esserlo). Per certi versi il film potrebbe considerarsi, senza esagerazioni, l’atto secondo di un dittico che annovera già “Whiplash” (dello stesso Damien Chazelle), l’ipotetica prosecuzione del conflitto lì rappresentato e perfino la sua revisione in chiave critica e meta-cinematografica. Chazelle, un po’ come l’inflessibile insegnante Fletcher di quel film, porta sullo schermo il conflitto fra arte, amore ed aspirazioni, frizioni che appartengono a Mia e Sebastian almeno quanto allo spettatore comune, lasciando però i primi dentro il territorio della pura rappresentazione filmica e sottoponendo invece il secondo a una riflessione più individuale. E si tratta di una riflessione condotta proprio mediante l’idioma e le architetture del genere che più “obbliga” all’astrazione (tanto visiva quanto psicologica). Ecco dunque che il musical, da semplice “forma” assumibile dalla narrazione (i protagonisti vi entrano ed escono in modo dialogato e naturale e non quali tasselli di una teatralità prestabilita), diviene ulteriormente stimolo pulsante di una personale rielaborazione del nostro status di spettatori (ma anche di folli e di sognatori…).
Non è un caso se l’attacco iniziale di “La La Land” si svolge su uno dei luoghi più anti-cinematografici per eccellenza del musical, uno di quelli che, in teoria, dovrebbe mortificare gli spazi coreografici tipici del genere e la poesia del contesto: una rampa autostradale di Los Angeles. Lo stesso budello di macchine e traffico che altrove inaugura giorni di ordinaria follia qui celebra invece un altro giorno di sole, fra danze improvvisate sui tetti delle auto, melodie intonate appena fuori dagli abitacoli e ciclisti che si muovono con grazia alla Busby Berkeley. Il superamento dell’anti-naturalismo del genere (in opposizione a quanto si operava per esempio in “Chicago” dove la sospensione musical dalla realtà trovava nel palco il mediatore più adeguato) passa idealmente da questa stupefacente sequenza. E’ lei il nostro banco di prova, l’incipit sul quale si misura la tenuta del sogno che verrà al di là e al di qua dello schermo. Perché se siamo disposti a farci assimilare sin da subito da essa non avremo problemi ad accettare il cantato successivo e a sintonizzarci tanto sulla vita quanto sulla fantasticheria rappresentate, guardando a quest’ultima come a una naturale prosecuzione della prima. Proprio come accade a Mia e Sebastian il cui cinguettare amoroso, quando diventa ormai incontenibile, non può che esprimersi attraverso un casuale quanto gioioso e (in)atteso tip-tap al calor blu cobalto.
Il musical di “La La Land” irrompe allora come uno qualsiasi degli interpreti della storia senza mai imporsi come una diva protagonista destinata a offuscare tutto il resto. Per tale ragione il suo condurci per mano attraverso le proiezioni amorose e esistenziali di quei due normalissimi folli appare quanto di più atteso e auspicato nel corso della narrazione. Per questo quando la storia smette di inquadrare Mia e Sebastian attraverso il caleidoscopio dell’amore e decide di guardarli attraverso un ordinario paio di “occhiali” c’è chi ha parlato di tradimento del genere o di un imperdonabile rallentamento nel ritmo, dimenticandosi tuttavia che è la vita stessa, coi suoi entusiasmi e i suoi ciclici assopimenti, a determinare l’andamento del battito. E sono proprio le pulsazioni su cui La La Land ha inteso accordare le sue armonie, fra accelerazioni iniziali (l’attesa, l’innamoramento), stasi riflessive necessarie e chiusure (quasi) malinconiche. Non è un caso che nel film il musical, come genere, aderisca in modo quasi entusiastico alla vita dei protagonisti soltanto quando si fa interprete delle aspirazioni quasi giovanili che li attraversano interiormente; perché se è vero che un altro giorno di sole riscalda un po’ tutti, la ricerca di qualcuno nella folla (Someone in the crowd) rappresenta invece il sogno più intimo di Mia, mentre le stars che brillano nella city al tramonto sotto gli occhi di Sebastian sono proiezioni dei suoi personali miraggi in apparente (e insanabile?) conflitto e cioè amore e successo personale. A seguire c’è la vita, caratterizzata ancora dai colori e dalla frenesia dei movimenti precedenti ma anche, inevitabilmente, disillusa, perché toccata da amarezze e verità acre e necessarie (Audition, ballata dei perdenti che se ne infischiano ormai del successo). E si tratta di verità che seguono quasi l’umorale fluire delle stagioni in cui è strategicamente suddivisa la narrazione (inverno, primavera, estate, autunno e poi ancora inverno). Capriccio, innamoramento, distensione, crisi e infine maturazione. Svolte prevedibili certo ma ugualmente inattese. Porte girevoli che al cinema devono convergere verso la malinconia di una realtà “temporanea” soltanto affinchè possa diventare più fulgido quell’altro sogno destinato all’eternità.
Ma più che vivisezionato “La La Land”, proprio come tutti i sogni lunghi un giorno o poco più, va prima di ogni cosa vissuto. Soltanto così infatti potremo sperare di essere assimilati dentro la sua stessa materia, diventando finalmente parte integrante di quello sfavillìo. Perché se è vero che siamo fatti della medesima sostanza dei sogni allora, probabilmente, la realtà non è nemmeno quella che sopravvive dentro la narrazione ma quell’altra che trionfa al di là di una porta scorrevole dischiusa per caso. E’ un Hellzapoppin’ agghindato in un romantico technicolor, il tripudio finale dipinto su un set e un lungo titolo di coda con stelle incastonate nel nero dello schermo come sparkling diamonds di luhrmaniana memoria. Certo il jazz, quel malinconico jazz che alla fine di tutto sopravvive, vorrebbe riportarci amaramente alla realtà dopo tanto brillare. Ma chi è fatto di sogni non teme mai il buio, perchè “when they let you down, the morning rolls around…It’s another day of sun…”
Andrea Lupo