“La felicità non è una meta da raggiungere ma una casa in cui tornare. Non è davanti ma dietro. Tornare non andare”.
La lirica araba tradotta da Giovanna Mezzogiorno nel finale del duro e commovente “La tenerezza” è il motivo conduttore di un cinema che da anni ci scorta per mano attraverso le regioni inesplorate dell’animo umano, quell’animo scisso fra aspirazioni esistenziali e politiche alte e il desiderio di un ricongiungimento affettivo più semplice e terreno. Un cinema che inquadra con esattezza geografie sociali e politiche, che filtra l’attualità del proprio tempo restituendola come archetipo di ogni tempo e che internamente ad essa colloca le vicende di un’umanità bramosa, spesso irrisolta, alla costante ricerca di un ordine e di un cardine personale. L’umanità che vuol andare e non tornare. Errando se necessario. E’ il cinema di Gianni Amelio, quello che riesce ad essere politico senza bisogno di esibire colori, che sollecita emozioni e non sentimentalismi e che racconta la fragilità dell’adulto attraverso lo specchio della tenacia limpida e infantile (lui “ladro di bambini” lo è per il modo in cui riesce a filmarli realisticamente catturandone essenza e verità). Biografico nella sequenzialità del proprio nascere (dagli anni di piombo di “Colpire al cuore” passando per la riflessione sulla giustizia in “Porte aperte”, fino all’autobiografismo implicito e documentaristico di “Felice chi è diverso”), cinematografico nell’urgenza di raccontare (il dramma della migrazione ne “Lamerica”, la riflessione culturale e industriale de “La stella che non c’è” e quella sociale de “L’intrepido”). Il cinema di Gianni Amelio è un racconto di formazione per un’umanità umile (ma non, si badi, “semplice”), un manuale sui sentimenti che ci insegna solo che non esistono manuali affidabili per sopravvivere, perché questi si scrivono solo (e spesso tardivamente proprio come nella vita) col dolore e l’errore. La speranza esiste, suggerisce Amelio al termine di ogni narrazione. Perché finchè si ha fede in quanto si racconta significa allora che sono rimasti almeno un narratore e il suo interlocutore. E al cinema (proprio come alla speranza) non occorre altro per poter sopravvivere. Al maestro Gianni Amelio Vois consegna con orgoglio questo ritratto in occasione dei Nastri d’Argento 2017. Perché chi ha fede nei narratori non può fare a meno di voler loro bene.
Testo e disegno di Andrea Lupo
Foto di Donatello Scuto